Giorno 11: Yokohama, la città dai tanti volti


Yokohama ha tante facce. Una brillante e cosparsa di make up per attirare gli sguardi. Una straniera ed esuberante che ci tiene a farsi notare. Una discreta e inaspettata che da turista pensavi quasi non esistesse.
Yokohama ha tante facce, e la prima che vedi, quella brillante, è forse, alla fine, la meno interessante.

 

Il nostro undicesimo giorno in Giappone è andato un po’ così. Siamo partite da Tokyo alla ricerca di una bellezza che ci ha un po’ deluso e ne abbiamo trovato un’altra che non ci aspettavamo.
Yokohama ha infatti un lato nascosto, uno che di solito i turisti non vedono. È fatto di stradine e di piccole casupole. Si inerpica piano sulla collina. Non è internazionale, né cosmopolita, non risplende nel buio della notte, né abbaglia  con i suoi grattacieli e le sue luci al neon. Sembra quasi un paesino di campagna piuttosto che una grande città, ma le persone sono gentili e sorridenti. Ti vengono dietro cercando di aiutarti anche se non parlano una sola parola d’inglese, solo perché sei straniero. Perché se ti trovi lì, anche se non hai una faccia orientale, ci possono essere solo due motivi. O ti sei perso. O stai cercando il Najya Monjya Cafè. Indovinate perché noi ci trovavamo in quel luogo?
No, non ci eravamo perse, anche se scommetto che molti di voi l’hanno pensato. L’opzione giusta è la seconda.

© Nanjya Monjya Cafe Official site

Ora, cos’aveva questo cafè di tanto speciale per farci lasciare i sentieri battuti dai turisti e condurci in un quartiere periferico di Yokohama? Per spiegarvelo devo fare un passo indietro.
Pensate alla vostra infanzia. Ricordate quei film americani, ambientati per lo più in estate, dove gruppi di ragazzetti dello stesso quartiere si riunivano per giocare insieme? Credo di averne visti a tonnellate quando ero piccola, e tutti avevano un denominatore comune per me di fondamentale importanza. La casa sull’albero.
Ricordo che da bambina non riuscivo a darmi pace per il fatto che io non ce l’avessi, l’agognavo disperatamente, mentre da più grande invidiavo da matti Cosimo Rondò ad ogni nuova pagina che leggevo de “Il barone rampante”.  Insomma, tra i miei sogni nel cassetto, c’è da sempre stato quello di vivere in una casa costruita su un albero.
Bene. Adesso immaginate me che cerco notizie su Yokohama e scopro che in città si trova un cafè costruito su un albero. Capite bene che anche fosse stata l’ultima cosa che facevo nella vita dovevo andarci per forza.
Arrivarci è stato un po’ più complicato. Intanto dalla stazione di Yokohama bisognava prendere la Blue line fino a Mitsuzawa Shimocho e poi proseguire a piedi fino al cafè.
Primo problema: trovare la Blue line. La stazione di Yokohama è un dedalo, proprio come quella di Tokyo, ma qui, a mio avviso, non era segnalato così bene dove dirigersi.
Trovata la Blue line dopo un buon pezzo passato a cercarla, abbiamo tirato fuori le suica e ci siamo dirette ai tornelli. Di nuovo tornelli rossi. Ok sta volta avevamo finito il credito per cui siamo andate alle macchinette lì vicino per ricaricare le carte.
Secondo problema. Avendo prelevato da poco avevamo solo banconote di grande taglio, ma non volevamo ricaricare le carte con così tanti soldi, per cui ci siamo rivolte al personale cercando di fargli capire che avevamo bisogno di scambiare i soldi o quantomeno di non caricare tutti i soldi sulla carta, ma di avere indietro un resto. Un ragazzo in divisa ci è venuto incontro sicuro di sè, con aria da “ho capito tutto! non vi preoccupate, ci penso io!”, tanto che ci siamo sentite quasi incredule e rincuorate che fosse stato così facile spiegarsi.
Gli abbiamo affidato i nostri soldi e le nostre carte e lo abbiamo seguito ad una macchinetta pensando che ci avrebbe mostrato come avere indietro il resto. Invece lui ha caricato tutti i soldi sulle nostre carte con fare spavaldo, per la serie “ecco fatto, vi ho salvato la vita vero?”. Abbiamo letteralmente cominciato ad urlare, cogliendolo di sorpresa. Dopo mille tentativi ha finalmente capito cosa non andava e ci ha restituito i soldi in più.
Scheda ricaricata, ci siamo di nuovo dirette ai tornelli. Rosso di nuovo. Mi veniva da piangere. Qual era il problema stavolta? Il ragazzo ci è di nuovo venuto incontro stranito. Aveva ricaricato lui la scheda quindi non capiva perché non riuscissimo a passare. Gli abbiamo riconsegnato le schede che ha consegnato ad un suo superiore per fare dei controlli. Alla fine il problema era che risultava ancora che non eravamo mai uscite dall’Enoden line di Kamakura. Ho maledetto quella dannata linea in tutte le lingue che mi venivano in mente. La cosa è stata comunque risolta in fretta affidandoci al solito magico aggeggino e per fortuna il problema non si è più ripresentato.
Arrivate a Mitsuzawa Shimocho ci siamo affidate a Google Maps per riuscire a trovare il cafè. Seguendo le indicazioni abbiamo percorso una zona residenziale, fatta prima di villette e poi di casette basse. Più ci avvicinavamo alla meta più ci sembrava di essere in un paesino di campagna. Eppure era ancora Yokohama.


A un certo punto ci siamo ritrovate di fronte una strada chiusa. Google Maps diceva di proseguire dritto, ma dritto non c’era praticamente niente, mentre sulla sinistra si facevano spazio due strade. Una larga a dimensione veicoli e una scalinata costruita a tornanti di cui non si vedeva la fine, che saliva su per la collina di fronte, circondata su entrambi i lati da varie casupole.


Sono rimasta un pezzo in dubbio su che strada prendere. La scalinate mi ricordavano tanto quelle viste in tanti drama coreani, in cui la protagonista, essendo sempre povera e sfigata, vive in miseria in case fatiscenti raggiungibili solo salendo milioni di scale. Per cui non è che quella via mi ispirassero molta fiducia e poi continuavo a dirmi che un albero difficilmente poteva trovarsi in quella zona di casette e scale. Non ce n’era proprio lo spazio e se anche ce ne fosse stato, come faceva a non intravedersi tra i tetti bassi?
Avevo quasi preso la decisione di dirigermi verso la grande strada asfaltata, quando ho visto due signore superarmi e chiedermi qualcosa in giapponese. Ho detto loro che non capivo ma loro continuavano a ripetere sempre la stessa domanda in giapponese. Ho supposto che chiedessero dove eravamo dirette e se ci eravamo perse, per cui ho detto loro il nome del cafè. Entrambe hanno cominciato ad indicarmi le scale facendomi segno di salire. Bene, almeno così potevamo essere certe di quale fosse la direzione giusta. Le abbiamo ringraziate e abbiamo cominciato la salita quando ci siamo accorte che piano piano, con i loro tempi, ci venivano dietro. Volevamo tornare indietro ad aspettarle ma loro continuavano a farci segno di salire. Abbiamo così rallentato un po’ il passo in modo da poter proseguire a distanza più ravvicinata.


Continuavamo a salire guardando indietro per cercare conferma in loro perché davvero non capivamo dove diavolo potesse trovarsi questo benedetto albero. Ad un certo punto ci hanno fatto segno di andare a destra. Tra le casette affiancate c’era uno spazio vuoto fatto di terreno battuto. Proseguendo in quella direzione abbiamo visto finalmente la chioma di un albero, non molto grande a dire il vero, e delle persone in fila. Abbiamo ringraziato le signore, che ci hanno salutate e sono tornate indietro sui loro passi solo dopo essersi assicurate che ci fossimo accodate alle altre persone per entrare.
L’albero spuntava dal terrazzamento di sotto. Accanto ad esso una casa, l’abitazione della proprietaria suppongo, era collegata con una scaletta al cafè sull’albero, mentre un’altra scala in legno, collegava il cafè al terrazzamento nel quale ci trovavamo noi. Accanto alle scale si trovavano un cartello in legno con scritto OPEN e un altro con il menù rigorosamente in giapponese.



Il cafè, una minuscola casettina in legno, spuntava tra le fronde dell’albero e sembrava reggersi per miracolo su una piattaforma in legno poggiata a due sottili rami. Anche le scale, fatta eccezione per un ramo che le sorreggeva proprio a metà, erano costruite sul vuoto. Una bandiera con scritto “cafè” in katakana spuntava tra le foglie.



Non riuscivo a credere di essere lì. Solo poche persone mi separavano dal mio sogno di bambina. Per ogni gruppo che andava via, la proprietaria scendeva personalmente a chiamare il prossimo per salire. Quando finalmente è toccato a noi non stavo più nella pelle.


Il cafè all’interno era una struttura in legno piena di cianfrusaglie e roba vecchia, sedie spaiate e oggetti che non vedevo dai tempi di mia nonna. Non so, probabilmente era un effetto vintage studiato, ma a me dava tanto l’idea che la proprietaria avesse ritirato fuori un sacco di robaccia che aveva in casa e di cui non sapeva che farsene e l’avesse usata per decorare il posto.



Alla fine però in qualche modo era caldo e accogliente. Non dava l’idea di sciatto ma di un mix tra gusto retrò, ecclettico e anche un po’ pacchiano.
Su un lato della piccola stanza c’era il bancone dietro al quale una ragazza con la mascherina preparava il caffè, alcuni tavoli si trovavano all’interno, altri erano posti su una specie di terrazzino all’aperto. Ho capito ci fosse anche un secondo piano ma non l’abbiamo visto. Non era possibile scegliere a quale tavolo sedersi difatti, ma ti veniva assegnato di volta in volta quello libero.



Noi siamo capitate all’interno, vicino al bancone. Da una parte ne sono stata contenta perché si gelava, ma mi sarebbe piaciuto vedere la vista dal terrazzino o dal secondo piano.


Una cosa che ho trovato carina è che, appena assegnato il tavolo, ci hanno portato dei plaid da mettere sulle gambe per riscaldarci. Il cafè proponeva principalmente bagels e qualche altra specialità che però non è presente in menù tutti i giorni. Le due donne non parlavano per niente inglese, per cui non è stato facile comprendersi, ma alla fine da quello che abbiamo capito, quel giorno avevano in menù solo due tipi di bagels, per cui ne abbiamo ordinato uno diverso a testa per assaggiarli entrambi, più due caffè.


Entrambi i bagels erano davvero ottimi, mi è piaciuto in particolare quello al curry, mentre i caffè erano proprio da dimenticare. Due americani che sapevano di acqua di fogna, mai bevuto niente di più terrificante. La cosa peggiore però è che non c’era modo di aggiustarli, ci abbiamo versato dentro tonnellate di zucchero, latte, panna… tutto inutile. Quel sapore orribile non migliorava nemmeno un minimo. E dire che io a volte il caffè lungo lo preferisco all’espresso.
Nonostante questo ci tornerei, certo mi guarderei dall’ordinare di nuovo del caffè, ma i bagels mi sono piaciuti e l’atmosfera era molto carina.
Ripresi i mezzi siamo scese alla stazione di Sakuragicho, la fermata più vicina a Minato Mirai, il porto di Yokohama.
Dalle foto viste su internet, Minato Mirai brillava come un faro nella notte. Quell’immagine è stato il primo stimolo per interessarmi a questa città. Mi sono detta che valeva la pena andare a vederlo, visto poi che Yokohama dista da Tokyo appena mezz’ora di strada. Ci si arriva prendendo la JR Yokosuka line o la JR Tokaido line dalla stazione di Tokyo.
Potete immaginare la mia delusione quando mi sono trovata di fronte questa vista.


Cos’era tutto quel grigiume? È vero la giornata non era delle migliori, forse con un bel cielo azzurro mi avrebbe fatto un altro effetto, ma non so, sarà sempre a causa della mia poca propensione verso i luoghi di mare, ma mi è sembrata brutta e triste.
È stato come vedere struccata una diva di Hollywood famosa per la sua bellezza e scoprire che in realtà è brutta. A confronto la Yokohama fatta di casette basse e persone gentili aveva una bellezza naturale e senza inganni che mi era piaciuta molto di più.
In ogni caso, per fortuna, il porto era la via e non la meta per cui ci trovavamo in quella zona, o credo sarei rimasta male il doppio. Cosa eravamo venute a vedere, o meglio a fare, quindi a Minato Mirai?
Ovviamente a visitare il Museo dei Cup Noodles e a creare la nostra confezione personalizzata. Più la seconda che la prima, se no probabilmente avrei optato per visitare il Museo del Ramen.



In realtà, una volta all’interno, devo dire che anche la storia dell’inventore del ramen istantaneo è stata interessante da scoprire.
Il Museo si sviluppa su tre piani, più un piano d’ingresso dove si trovano la biglietteria e lo shop e un ultimo piano con la sala dedicata agli eventi.
Abbiamo iniziato la visita dal primo piano, quello dedicato alla vita di Momofuku Ando, fondatore della Nissin e inventore dell’instant ramen appunto. Attraverso la proiezione della sua storia nel piccolo cinema e poi percorrendo le varie sale, abbiamo scoperto come sia passato dal capire come disidratare i noodles nel suo capannone (tra l’altro ricostruito all’interno del museo), all’idea della cup che ha trasformato la sua azienda in una multinazionale, fino a creare il ramen che gli astronauti consumano durante le missioni spaziali.



 

 

 


Di questo piano mi sono piaciute soprattutto due cose. Le sale della creatività (una serie di sale che ti fornivano consigli su come avere anche tu l’idea geniale che potrebbe cambiarti la vita) e la stanza con la storia del ramen istantaneo, in cui su quattro pareti erano disposte, in ordine cronologico, le confezioni di ramen e il rispettivo anno di produzione. Mia sorella ci ha tenuto in particolar modo a fotografare quella del suo anno di nascita.

Guarda alle cose da ogni prospettiva
Pensa in modo diverso dal solito

Non ti arrendere mai



Al secondo piano si svolgevano i laboratori che erano prenotabili in biglietteria e andavano ad orario. 
Il laboratorio Chicken Ramen consisteva nella creazione di un piatto di ramen al pollo seguendo la ricetta originale di Momofuku Ando. Si partiva dall’impastare la farina per i noodles fino al processo di disidratazione.


Il laboratorio My CupNoodles, quello a cui abbiamo preso parte noi, consisteva, invece, nel creare il proprio ramen istantaneo, dal design della confezione fino agli ingredienti da inserire all’interno.
Siamo partite acquistando le cup da un distributore automatico e, dopo aver disinfettato le nostre mani, ci siamo accomodate a dei tavoli con tanti pennarelli colorati per cominciare a decorare la nostra confezione. Devo dire che c’era gente davvero brava, ho visto dei disegni davvero stupendi, i nostri a confronto sembravano scarabocchi di bambini dell’asilo.






Finita la decorazione, abbiamo portato le nostre cup a degli operatori. Tramite delle apposite macchine, abbiamo inserito i noodles all’interno e poi abbiamo scelto il tipo di brodo e 4 ingredienti diversi. Le cup sono poi state sigillate,  avvolte con una pellicola termoretraibile e passate in forno perché la pellicola aderisse bene.  Infine le abbiamo inserite dentro un sacchettino ad aria compressa che abbiamo gonfiato e poi usato come borsetta per portarcele in giro.








Al terzo piano infine si trovava una specie di parco giochi per i bambini e vari ristoranti che servivano piatti a base di noodles provenienti da tutto il mondo, tra cui anche gli spaghetti alla bolognese. Ma avendo mangiato da poco, siamo solo passate a dare un’occhiata e abbiamo proseguito oltre.




Quando siamo uscite dal museo era già buio ma anche illuminata, Minato Mirai aveva perso per me molto del suo fascino.


Abbiamo così ripreso il treno fino alla stazione di Ishikawacho, direzione Chinatown.
Già appena fuori la stazione abbiamo trovato il primo arco d’accesso all’area ed è stato amore a prima vista.


Mi capita ancora spessissimo in Italia che molta gente consideri cinesi e giapponesi come un’unica popolazione, quando a mio avviso su molti aspetti non potrebbero essere più diversi. Guardando anche solo all’architettura si capisce subito. Le parole austerità e sobrietà che caratterizzano gli edifici giapponesi, dubito siano mai state presenti nel vocabolario cinese.
Colori accesissimi in ogni dove, un tripudio di decorazioni, Chinatown mi è piaciuta tantissimo. Ho adorato le sue stradine strette e affollate, i ristoranti cinesi ad ogni angolo, le lanterne di carta rossa illuminate, i caratteristici gazebo e le piastrelle bianche disegnate che abbellivano i marciapiedi.







Per strada abbiamo incontrato anche vari ristoranti che avevano le riproduzioni dei piatti in plastica in vetrina. Sembravano uno più invitante dell’altro e alcuni avevano persino le foto e gli autografi di vip che avevano mangiato lì. Peccato noi avessimo già un appuntamento per cena e poi era comunque ancora troppo presto.

Un ristorante con le foto di Jang Keun Suk
Ho visto la puntata di Himitsu no Arashi-chan in cui gli Arashi hanno provato questo piatto
Alla fine ci siamo fermate a un negozietto a comprare un nikuman e un pandaman al cioccolato solo perché non siamo riuscite a resistere alla voglia di assaggiarli.
Nikuman (panino cotto al vapore ripieno di carne)

Pandaman ( panino cotto al vapore a forma di panda che può avere diversi ripieni, di solito dolci)
Se i portali di Chinatown mi avevano già colpito in positivo, il portale d’accesso al Masobyo (Ma Zhu Miao in cinese) mi ha lasciato totalmente a bocca aperta. Mai visto niente di più maestoso.
Tetti costruiti su intricati incastri, dettagliatissime decorazioni di finissima fattura, dragoni e fenici affrontati tra un pannello e l’altro, una miriade di colori che non lasciavano nessuno spazio al vuoto.



Abbiamo varcato la soglia con le teste per aria, seguendo prima le decorazioni del portale e poi le quattro lunghe file di lanterne rosse accese che lo collegavano al tempio vero e proprio. Se quello era il tempio di un quartiere cinese in Giappone, non riuscivo a immaginare cosa avrei potuto vedere visitando la Cina.



Il tempio era dedicato alla Dea Maso (Ma Zhu in cinese), guardiana degli Oceani.
Maso era una donna cinese di nome Lin Mou Nyang, proveniente da una famiglia di Fujian, i cui avi erano stati governatori della prefettura di Tian Jiu Mei. Nata il 20 Marzo del 960, si era distinta per pregare Buddha con intensità già in tenera età, tanto che a 16 anni gli furono donati dei poteri soprannaturali che lei usò per aiutare le persone. Morì all’età di 28 anni. Da allora è venerata per proteggere i credenti dagli incidenti in mare, dai disastri e dalle malattie.
Mentre ci dirigevamo su per le scale siamo state bloccate da una donna che ci ha spiegato che se volevamo vedere l’interno dovevamo acquistare dei bastoni d’incenso da offrire alla dea. Il prezzo richiesto mi sembrava un po’ eccessivo a dire il vero, ma ci tenevo a vedere anche l’interno, così, mentre stavamo ancora lì con mia sorella a decidere sul da farsi, è sopraggiunto anche il sacerdote a capo del tempio.
Era una persona davvero amichevole e simpatica. Appena ha visto eravamo straniere, ha iniziato a chiederci da dove venivamo e perché ci trovavamo lì e a raccontarci con entusiasmo del suo viaggio in Italia, della storia del tempio e di come era finito lì a gestirlo. È stata una chiacchierata piacevolissima ed interessante. Alla fine ci ha preso in simpatia e ci ha fatto entrare senza dover pagare per l’incenso.




Uscite dal Masobyo, volevamo dirigerci in direzione del tempio successivo, il Kanteibyo, ma mia sorella si è fatta distrarre da un negozio che vendeva varie cose a tema panda. Già solo guardando l’ingresso si capiva che doveva essere il regno del pacchiano e delle brutture, ma purtroppo il suo cervello va in blocco appena vede roba bianca e nera pelosa, per cui ci siamo dovute fermare.
Dire che all’interno c’era qualcosa di carino corredato da un’infinità di ciarpame è voler essere gentili. Ho visto roba tanto brutta che ho seriamente valutato l’idea di proporre le foto alla pagina Facebook “Cinesate tarocchissime”.



Quando finalmente sono riuscita a staccarla da lì, ero talmente stremata che non riuscivo più nemmeno a capire in che direzione andare per raggiungere il Kanteibyo. Affidarmi al senso dell’orientamento di mia sorella era fuori discussione. Sarebbe stato come chiedere a Ryoga di incontrarci nel giardino dietro casa sua, e chiunque ha visto Ranma ½ sa benissimo com’è andata a finire. Quindi niente, dovevo cavarmela da sola. Per fortuna i miei neuroni hanno avuto un recupero veloce, dopo la prima fase di sbandamento, per cui alla fine abbiamo raggiunto la meta con successo.
Il Kanteibyo, se possibile era anche più sontuoso del Masobyo. Sia il portale d’accesso che il tempio erano minuziosamente decorati e sormontati da enormi dragoni di vetro.




Le scale d’accesso recavano incisi draghi che salivano verso il cielo, mentre due cani scolpiti a Kamakura, con pietra proveniente da Taiwan, stavano a a guardia dell’edificio principale.



Il tempio presentava delle colonne istoriate realizzate in maniera magistrale ed era pieno di dettagliatissime decorazioni totalmente ricoperte d’oro. Solo le porte, alcune colonne e travi, e le lanterne di carta con i loro colori rossi accesi, creavano uno stacco in mezzo a tanta profusione d’oro. Era così stupefacente che sembrava realizzato da mano divina.



Il tempio è dedicato a Kanwu (Guan Yu in cinese) il generale cinese le cui gesta divennero famose grazie a Il Romanzo dei Tre Regni. Divinizzato con il nome di Guan Gong è considerato il dio degli affari. All’interno del tempio si trovava una statua che lo raffigurava con ai lati suo figlio Guan Ping e il suo assistente Zhou Cang.


Costruito per la prima volta nel 1862, quando la statua del dio fu portata dalla Cina, il tempio è andato distrutto varie volte da allora a causa di incendi, terremoti e bombardamenti aerei, ma è sempre stato ricostruito dai devoti abitanti di Chinatown.
Fattosi ormai tardi, siamo corse a prendere il treno, onde evitare la solita figuraccia da italiane che arrivano sempre in ritardo agli appuntamenti con i giapponesi che invece sono sempre puntuali (vedesi giorno 3 di viaggio quando abbiamo fatto aspettare la povera Yumi per un’ora).
Siamo arrivate di nuovo alla stazione di Sakuragicho giusto in tempo, solo perché Haruki, con cui dovevamo vederci per cena, ha chiamato per avvertire che sarebbe arrivato con 5 min di ritardo, perché era stato trattenuto al lavoro più a lungo del previsto. Ora ditemi, quale italiano chiama per dire che arriva 5 min in ritardo? Io no di sicuro. Se arrivi 5 min in ritardo è come essere ancora in orario, o mi sbaglio?
In ogni caso, il suo ritardo era quello di cui avevamo bisogno per non essere in ritardo anche noi, per cui quando siamo infine arrivate a Minato Mirai, ci siamo spacciate per gente che lo aveva aspettato per la bellezza di 5 min, quando invece per arrivare in tempo avevamo corso come due matte per mezza stazione.
Una volta incontratici in mezzo alla folla serale di Yokohama, abbiamo deciso di andare a mangiare in un ristorante di okonomiyaki ( “Tutto quello che vuoi alla piastra”, è una sorta di frittata a base di cavolo e vari altri ingredienti a scelta, per capirsi quella che cucinavano Marrabio in Kiss me Licia e Ukyo in Ranma ½ ).
La serata è trascorsa molto velocemente tra una chiacchiera e l’altra, tanto che al solito, mi spiace, ma ho dimenticato di nuovo di fotografare la cena.


Quando abbiamo guardato l’orologio erano già le 23.00. Tragedia. Considerando che tutti i treni in Giappone si fermano a mezzanotte, dovevamo sbrigarci a tornare in stazione per poter prendere l’ultimo treno verso Tokyo.
Haruki ci ha riaccompagnato a Sakuragicho ed è venuto con noi fino alla stazione di Yokohama, dove ci siamo salutati, e dalla quale partiva il nostro treno di rientro. Abbiamo localizzato il binario  a tutta velocità e ci siamo fiondate dentro al treno in partenza. Ce l’avevamo fatta per un pelo.
Mi sono seduta e finalmente ho potuto rilassarmi e godermi il viaggio. Almeno finchè le mie orecchie, dopo quasi 20 min di percorrenza, hanno udito un nome familiare ma totalmente fuori contesto provenire dall’altoparlante. “Next station: Ebisu. Ebisu”.
Ebisu? Perché ci trovavamo dal lato opposto di Tokyo rispetto a quello in cui dovevamo andare?   Mi sono rassicurata convincendomi che forse quel treno faceva un giro diverso, ma poi arrivava sempre alla stazione alla quale dovevamo scendere.
“Next station: Shibuya. Shibuya”. Perché il treno continuava ad allontanarsi rispetto alla zona nella quale eravamo dirette noi? Preoccupata, ho iniziato ad allertare mia sorella, la quale ignara di tutto, continuava a trafficare con il cellulare, presa dai suoi pensieri.
“Next station: Shinjuku. Shinjuku”. <<Diana abbiamo sbagliato treno, dobbiamo scendere!>> <<Che?>>
L’ho letteralmente trascinata fuori, angosciata. Erano le 23.35 e noi ci trovavamo a circa 2 ore e mezzo a piedi da dove avremmo dovuto essere. Dovevamo immediatamente trovare un treno che arrivasse alla nostra stazione di destinazione o avremmo dovuto camminare fino all'hotel, che, volendo essere positive, saremmo riuscite a raggiungere alle 2 di notte circa.
Ho iniziato a cercare treni diretti alle due stazioni più vicine al nostro hotel: Bakurocho e Asakusabashi. Niente. Non ce n’erano più fino all’indomani mattina.  Il panico. Che facevamo adesso?
Mia sorella ha preso in mano il telefono: <<Dimmi tutte le stazioni che ti vengono in mente lì vicino, cerchiamo almeno di avvicinarci per fare meno strada a piedi>>.
<<Akihabara>>. Niente. <<Tokyo>>. Niente. <<Asakusa>>. Niente. <<Ochanomizu>>.
<<Chuo line, binario 5. Parte tra 4 min. Corri!>>.
Credo di non aver mai corso con così tanto impegno e disperazione in tutta la mia vita e allo stesso tempo aver prestato così tanta attenzione ad ogni singola indicazione di direzione all’interno di una stazione. Non potevamo sbagliare strada o non saremmo arrivate in tempo al binario, non potevamo sbagliare treno, non di nuovo, o stavolta non ce ne sarebbe stato una altro per riuscire a tornare in hotel.
Abbiamo trovato il binario con 2 min di anticipo, il tempo sufficiente per scoprire che la Chuo line aveva come ultima fermata la stazione di Tokyo. Non so perché la nostra app non la segnalasse, ma forse avevamo ancora una flebile speranza. Se scendevamo a Tokyo, forse potevamo ancora trovare qualche corrispondenza per Bakurocho, la nostra destinazione. Siamo salite sulla Chuo line ancora con le teste piegate sul cellulare a controllare. Si, c’era un ultimo treno che partiva da Tokyo a mezzanotte e passava da Bakurocho ma avevamo solo 3 min  dal nostro arrivo in stazione per trovare il binario e riuscire a prenderlo.
Abbiamo trascorso il resto della percorrenza sul treno a prepararci al rush finale. Appena le porte si sono aperte sulla stazione di Tokyo, abbiamo iniziato a correre, e non so come o per quale grazia divina, ma siamo riuscite a prendere quel treno.
Quando abbiamo finalmente messo piede sul suolo della stazione di Bakurocho non ci sembrava vero. L’adrenalina che mi aveva spinto fino a quel momento è iniziata a calare vertiginosamente, lasciandomi quasi barcollante, senza la forza di reggermi neppure in piedi.
Eppure, allo stesso tempo, mi sentivo psicologicamente pronta per ricominciare una giornata di viaggio. Avrei potuto percorrere la strada per Hakone, la nostra meta del giorno dopo, a piedi in quel preciso momento. Perché se ero riuscita a tornare in hotel quando sembrava impossibile, quella sera sentivo di poter fare tutto.
L’unica cosa che continuava a tormentarmi era: ma come avevo fatto a sbagliare treno a Yokohama? E, tra tanti momenti per sbagliare treno come avevo fatto a scegliere proprio quello?
Ho poi capito che l’errore era stato fiondarsi dentro al treno senza controllare che fosse quello giusto, solo perché pensavamo che mancassero pochi minuti alla partenza. In realtà il treno giusto sarebbe arrivato allo stesso binario esattamente 3 min dopo, quindi in realtà eravamo in anticipo. Il fatto è che non ci aspettavamo che due treni potessero partire ad una distanza tanto ravvicinata l’uno dall’altro dallo stesso binario. In Italia non succederebbe mai o ci sarebbe un accumulo di ritardi inverosimile.
In pratica essere in anticipo di pochi minuti ci aveva portato ad essere molto in ritardo.
Ho quindi fatto due nodi al fazzoletto come promemoria per il resto del viaggio: controllare sempre la direzione del treno prima di salire e imparare ad essere puntuali (mai in ritardo, né tanto meno in anticipo).

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