Giorno 12: Hakone, disperse tra la nebbia


Avete presente quelle giornate quando vi alzate al mattino e fuori piove. Avevate in programma di fare qualcosa ma quasi quasi avete voglia di rimandare tutto perché pensare di uscire con un tempo così brutto è davvero spiacevole. Allora aspettate un po’ sperando qualcosa cambi, ma visto fuori dalla finestra non accenna a migliorare, alla fine vi rassegnate. Indossate gli stivali, afferrate l’ombrello e uscite, già consapevoli che sarà una giornata difficile, che probabilmente raggiungerete la meta fradici a metà, con i capelli gonfi e arruffati e gli occhiali totalmente appannati, ma nonostante questo dovete andare, perché il mondo non aspetta, ogni ora sprecata è un’ ora persa che non tornerà mai più.
Questa era la situazione la mattina del nostro dodicesimo giorno in Giappone. Fuori imperversava un temporale tremendo e noi, per un secondo, abbiamo quasi pensato di lasciar perdere la visita della giornata. Valeva davvero la pena uscire con quel tempo? Eppure se non l’avessimo fatto, oggi non potremmo dire di aver visto Hakone.
Armate così di coraggio ci siamo preparate e alle 6.30 eravamo già fuori. Alla stazione di Tokyo ci aspettava lo shinkansen in direzione Odawara, da lì partiva la coincidenza verso la nostra meta. Visto la zona di Hakone non era coperta da JRP avevamo deciso di acquistare l'Hakone Tabidasuke Pass che comprendeva il viaggio di andata e ritorno da Odawara ad Hakone  in autobus, più tutti gli spostamenti all’interno della città (autobus, nave, funivia).
Il pass in questione era in vendita solo in un ufficio fuori la stazione di Odawara. Questa cosa di trovare l’ufficio per l’acquisto del pass era una delle cose che mi preoccupava di più prima di partire dall’Italia, oltre al fatto del viaggio in autobus. Sono una persona che preferisce avere tutto sotto controllo, invece il fatto che l’intero andamento della giornata sarebbe stato deciso il giorno stesso mi metteva tantissima ansia. E se non trovavamo l’ufficio? E se era chiuso?  E se prendevamo l’autobus sbagliato? E se non capivamo dove scendere perché, come in Italia, non sempre annunciano le fermate? Tutto poteva andare in fumo per il motivo più sciocco.
Proprio per questo, da pianificatrice folle quale sono, ero andata a cercare con Google Maps l’esatta ubicazione dell’ufficio, il numero dell’autobus, da quale fermata partiva, quante fermate faceva prima di raggiungere la meta e com’era la fermata alla quale dovevamo scendere.
Nonostante tutta la preparazione, il brutto tempo mi faceva sentire inquieta.
Siamo arrivate ad Odawara che erano le 8. Appena scese dallo shinkansen ci siamo dirette verso l’ufficio e lo abbiamo trovato chiuso. Il mio peggiore incubo si stava avverando.
Dopo un primo momento di panico, abbiamo scoperto che apriva alle 8.30. Era solo troppo presto. Che facevamo allora? Siamo tornate indietro dentro la stazione per comprare qualcosa da mangiare per colazione. 
La caffetteria italiana Tre tatte (tazze?) offriva dei menù simil nostrani per colazione, ma non abbiamo voluto rischiare. Ci fidavamo di più del cibo giapponese dei conbini.


Passata la mezz’ora ci siamo dirette di nuovo verso l’ufficio. Ancora chiuso. Per quale motivo? Avevo già iniziato a farneticare immaginandomi uno sciopero degli uffici turistici di tutto il Giappone che noi avevamo avuto la sfortuna di beccare proprio quel giorno, quando abbiamo notato che era venerdì e il venerdì l’ufficio apriva alle 9.30. Dovevamo aspettare un’altra ora. Mia sorella mi ha maledetto per averla fatta alzare presto per niente.
Che facevamo un’altra ora? L’unica opzione sembrava fare un giro in stazione ma non avevo nessuna voglia di stare lì a perdere il tempo. Allora? Mi è venuto in mente che qualche giorno prima avevo raccattato da un ufficio turistico a Tokyo una brochure, con tanto di mappe, delle zone da visitare intorno alla capitale. Siccome tra queste c’era anche Hakone l’avevo portata con me.
Sfogliandola qualche giorno prima mi era caduto l’occhio su una mappa che non ci serviva, ma che in quel momento si rivelò estremamente utile: la mappa di Odawara. Abbiamo così scoperto che non troppo lontano dalla stazione si trovava un castello. Perché non sfruttare quell’ora per andare a vederlo?
Persino il ritmo battente della pioggia era diminuito, lasciando spazio tra le nuvole a un timido sole. Tutto ci diceva di andare e così siamo andate.
La strada verso il castello era piena di pozzanghere e terreni bagnati ma ci ha fatto scoprire un po’ della vita quotidiana della città. Siamo passate davanti ad una scuola proprio mentre i bambini stavano per entrare, abbiamo visto in funzione un rifornimento di benzina le cui pompe calavano dall’alto, abbiamo respirato il forte odore della terra bagnata man mano che ci avvicinavamo al castello.




L’Odawara-jo non si trovava esattamente dove indicato dalla mappa. O meglio si, ma l’ingresso era dalla parte opposta rispetto a quella da cui venivamo noi. Potevamo vederne la cima in mezzo agli alberi ma per raggiungerlo abbiamo dovuto attraversare stradine accennate in mezzo a campi coltivati.
Un ponte rosso ne indicava l’entrata sopraelevata. Lo abbiamo percorso raggiungendo il portale d’accesso al castello che svettava, imponente, su un ampio piazzale.




Ad accoglierci vicino l’ingresso, delle scimmie dal pelo lungo e i visi vermigli chiuse dentro enormi gabbie. Siamo rimaste un po’ ad osservarle giocare, rincorrersi e abbracciarsi prima di dirigerci verso il castello.



Visto come era andata la visita dei giardini del Palazzo imperiale si può ben dire che in quel momento eravamo di fronte al nostro primo castello giapponese. E non c’era quasi nessuno. Non so ben dire che impressione mi ha fatto.
In generale devo ammettere che i castelli giapponesi non mi hanno mai affascinato molto, forse sono troppo legata all’idea dei castelli francesi per riuscire ad apprezzare quelli nipponici, tuttavia, forse anche a causa di tutto quel silenzio intorno, ho sentito che quello era davvero un momento speciale. Una piccola scoperta personale fatta per puro caso e fuori programma che aveva dato nuova luce alla giornata.



Abbiamo valutato se visitare l’interno ma visto quanto tempo ci avevamo messo ad arrivare, abbiamo deciso che era meglio tornare indietro, nella speranza di riuscire finalmente a comprare il pass per andare ad Hakone.
L’ufficio stavolta era aperto.  Una signorina molto gentile ci ha fornito un sacco di fogli in giapponese (brochure, itinerari e orari degli autobus) spiegandoci in inglese ed evidenziando in rosso sui fogli le cose che ci interessavano. C’era un autobus diretto ad Hakone circa ogni ora e mentre era lì che ci evidenziava l’orario si è accorta che il prossimo stava per partire proprio in quel momento. Ci ha messo i fogli in mano, ci ha indicato la fermata e ci ha detto di correre.
Non avremmo fatto in tempo a prenderlo se non fosse stato per alcuni passeggeri appena scesi che vedendoci correre in quella direzione hanno fatto segno all’autista di aspettare. Dopo essersi accertato che stavamo rincorrendo l’autobus giusto, l’autista ci ha fatto salire e così è cominciata l’ora di viaggio che ci separava da Hakone.
La nostra fermata ad Hakone si chiamava Owakudani (Grande Valle Bollente).  Hakone difatti, si trova in una zona montuosa nella prefettura di Kanagawa ed è famosa come zona termale, in quanto ricca di giacimenti sulfurei.


Avevo visto che la fermata era facile da riconoscere in quanto si trovava in un piazzale intorno al quale si vedevano risalire vapori dal terreno, dovuti ai giacimenti vulcanici sottostanti. Mi sono detta che l’avrei riconosciuta senza problemi. Peccato che man mano che risalivamo la montagna per giungere alla nostra meta una coltre sempre più spessa di nebbia ci circondasse su ogni lato. Come facevo a trovarla se non si vedeva niente? Tutta quella nebbia mi faceva venire l’ansia. E se avessimo avuto un incidente? Inoltre il fatto che l’autista guidasse a sinistra non faceva che aumentare la mia percezione del pericolo. Mi sentivo per tutto il tempo sul lato sbagliato della strada anche se era quello giusto.
Quando infine siamo arrivati mi era anche venuta la nausea a causa delle curve, per cui sono stata ben felice di scendere. Certo la “non vista” su Owakudani era desolante. Nebbia ovunque. Dei vapori provenienti dal terreno nemmeno l’ombra. L’unica cosa fin troppo chiara era un tanfo incredibile di uova marce.  


Abbiamo provato a fare un giro nei dintorni ma era tutto chiuso causa maltempo.  Una pioggerellina finissima continuava a cadere fastidiosa e non sapevamo bene cosa fare.



Ci siamo scattate delle foto con le uova nere poste qua e là sul piazzale e abbiamo tentato di fotografare le cave di zolfo appena il banco di nebbia accennava a spostarsi  poco più in là.





Ma che c’eravamo venute a fare ad Owakudani con quel tempo? L’unico edificio aperto era lo shop e visto anche che prima del prossimo autobus ci sarebbe voluto un bel po’ abbiamo deciso di entrare a guardare, in modo da rimanere al caldo. 
Dopo aver guardato i souvenir e fatto anche un piccolo acquisto molto giapponese (un asciugamanino da borsa-> se non sapete di che parlo andatevi a leggere il quarto giorno di viaggio al Museo Ghibli), non era passata nemmeno mezz’ora. Che altro fare?
In un angolo dello shop, c’era un tavolo con dei secchi dove folle di turisti stavano lì a sbucciare e mangiare uova. Dopotutto eravamo ad Owakudani ed eravamo turiste. Potevamo andarcene senza aver mangiato anche noi le uova nere tipiche del posto che si dice allunghino la vita di ben 7 anni?




In realtà si tratta di normalissime uova bollite, ma il colore nero di cui si impregna il guscio è dovuto alla cottura all’interno delle acque termali vulcaniche.
Infreddolite come eravamo le uova calde ci hanno ridato un po’ di energia. E poi il resto del tempo è passato vedendo chi riusciva a fare la posa migliore con le uova in mano.


Ho ringraziato l’arrivo dell’autobus che ci ha lasciate ai piedi della montagna vicino al lago Ashi. Nonostante il brutto tempo continuasse, in riva al lago la nebbia era scomparsa del tutto. Nel nostro pass era compreso sia l’uso della nave per attraversare  il lago, sia l’uso della funivia per risalire la montagna Komagatake.
Una persona lungimirante avrebbe capito che visto il tempo inclemente era meglio restare sul lago. Io ho visto che sulla montagna c’era un santuario quindi, convincendomi che il tempo fosse migliorato, visto al lago non c’era nebbia, ho deciso di salire in funivia.  


Se in un primo momento abbiamo persino potuto apprezzare la vista del lago e dei colori autunnali di cui erano tinte le montagne, man mano che salivamo la nebbia imbiancava tutto intorno a noi.


 


Continuare a salire senza riuscire a vedere più niente è stato particolarmente snervante. A momenti mi è sembrato di essere finita dentro un film horror. Continuavo a pensare: Adesso il filo si stacca e precipitiamo nel vuoto. Oppure: Quand’è che uno dei passeggeri impazzisce e ci uccide tutti?
La situazione in cima alla montagna era talmente tragica che non so con quale spirito avventuriero abbiamo deciso di mettere piede fuori dalla stazione della funivia. La nebbia era così fitta che non si riusciva a vedere ad un palmo dal naso. Avevamo paura persino ad avanzare perché non si riusciva a capire cosa ci fosse poco più in là. Abbiamo cercato di seguire il sentiero per un po’ ma senza riuscire a trovare quello giusto per raggiungere il santuario.


Siamo invece finite sul ciglio di un precipizio appena recintato. Forse si trattava di un punto panoramico ma in quel momento non si vedeva assolutamente niente. Come se tutto questo non fosse abbastanza, c’era un freddo assurdo. Si gelava e in più di un’occasione ho pensato che sarei morta assiderata su quella montagna. Il tasso di umidità poi era altissimo, nonostante non piovesse ci siamo ritrovate fradice dalla testa ai piedi e con gli occhiali completamente appannati.


Ci veniva tanto da piangere che alla fine abbiamo cominciato a ridere come due sceme. Eravamo da sole, in cima ad una montagna, senza anima viva nei paraggi, completamente circondate dalla nebbia, bagnate e infreddolite e non riuscivamo a smettere di ridere. Se qualcuno ci avesse visto in quel momento ci avrebbe prese per matte, ma questo è diventato uno dei ricordi più preziosi di tutto il viaggio.



Non volendo metterci a seguire percorsi a caso per paura di non riuscire più a capire che strada prendere per raggiungere la stazione della funivia, abbiamo così deciso che era il momento di tornare sui nostri passi. Quando ho finalmente intravisto la teleferica in mezzo alla nebbia mi è sembrata quasi un miraggio. Ci siamo precipitate dentro per riscaldarci e bere qualcosa di caldo in attesa della prossima corsa.


Nuovamente in riva al lago, il tempo era peggiorato rispetto a come lo avevamo lasciato. Era molto più uggioso. Ancora infreddolite, non volevamo continuare a girare al freddo e al gelo, per  cui abbiamo deciso che quello era il momento ideale per cercare un ristorante per pranzare.
In quella zona non è che ci fosse poi molta scelta, o forse causa brutto tempo molte delle attività erano chiuse, fatto sta che c’erano solo due opzioni. Un ristorante di gyudon che sembrava niente male (ma il gyudon lo avevamo già mangiato 😕!) e una sorta di mensa a cui da fuori non avrei dato due centesimi, ma che aveva dei prezzi davvero bassissimi. Quello che mi ha poi convinta per questa seconda opzione, è che avevano in menù lo tsukemen, una sorta di ramen scomposto, dove il brodo viene servito a parte e gli altri ingredienti si mangiano intingendoli in esso.
Abbiamo così fatto l’ordinazione tramite una macchinetta, consegnato lo scontrino all’uomo dietro il bancone e siamo andate a sederci ad un tavolo in attesa dei nostri piatti. Il locale era deserto, c’eravamo soli noi e una signora che stava già sorseggiando la sua ciotolona di ramen fumante.
Dopo poco ci hanno fatto segno di avvicinarci per ritirare i nostri vassoi. Il ramen di mia sorella non sembrava niente male mentre il mio tsukemen non è che fosse esattamente invitante, sembravano spaghetti sconditi accompagnati da una fetta di prosciutto e sottaceti. Mi sono detta che oggi andava così che dovevo farmi andare bene quello.
L’unica cosa positiva era che tutti i menù comprendevano un piattino di riso al curry per cui almeno anche se il mio piatto non era granchè potevo rifarmi la bocca con quello.



Ho quindi afferrato i noodles con le bacchette, rassegnata, li ho intinti nel brodo e li ho messi in bocca. 
E lì si è aperto un nuovo mondo ricco di prospettive. Il brodo più buono mai provato in tutta la vita. Non ho parole per descriverlo, non so cosa ci avessero messo dentro ma era delizioso, ne avrei potuto ordinare altre 10 ciotole. Era inaspettato, insospettabile e aveva superato ogni mia aspettativa. Troppo buono.
Il resto del piatto, effettivamente, come avevo presagito, non era niente di chè, ma quel brodo finiva dritto al terzo posto tra i piatti migliori mangiati in Giappone. Solo terzo perché il brodo non era tutto il piatto, ma se anche il resto dello tsukemen fosse stato all’altezza avrebbe raggiunto un punteggio molto più alto.
Nuovamente fuori alle intemperie, ci siamo dirette a prendere il traghetto che ci avrebbe portato sull’altra sponda del lago Ashi per la visita dell’Hakone Sekisho, il posto di blocco da cui si controllavano gli ingressi nella capitale.
In attesa che il traghetto attraccasse siamo state fatte accomodare sotto una tettoia vecchia e fatiscente che nulla poteva contro il freddo che ci stava consumando le ossa, ma almeno ci forniva un riparo dalla pioggia.



Il viaggio in traghetto è stato davvero piacevole, peccato davvero per il pessimo tempo atmosferico, con una bella giornata sarebbe stata tutta un’altra cosa.


Per fortuna, la visita dell’Hakone Sekisho è stata graziata dalla fine della pioggia. Nonostante fosse tutto palesemente ricostruito ho davvero apprezzato il racconto della vita quotidiana degli ufficiali del posto di blocco, dai momenti di convivialità a quelli strettamente lavorativi.




Abbiamo visitato le varie case ed uffici e poi abbiamo salito le scale verso la torre di guardia. Mai scale furono tanto impegnative da salire. Più salivo e più era faticoso. Non che fossero poi così tante le scale ma sembrava come se a ogni passo i gradini diventassero più larghi e fossi costretta ad allungarmi per raggiungere quello successivo.  



Ho pensato che non ero abbastanza allenata e prima o poi salire scalinate avrebbe finito con l’uccidermi. Ho riferito la cosa a mia sorella la quale mi ha guardato perplessa chiedendomi: <<Ma non hai letto i cartelli?>>
A quanto pare lungo l’inferriata erano appesi dei cartellini che domandavano ai passanti se non fosse faticoso salire le scale e spiegavano che i gradini erano stati realizzati in modo che fossero sempre più grandi, man mano che si saliva, in modo da rendere difficoltoso ai nemici il raggiungere il punto d’osservazione.



Allora non ero io la sfaticata che non riusciva nemmeno a salire due scale! Presa com’ero dall’affrontare la salita i cartelli non li avevo mica visti. Li ho ben notati al ritorno però, soprattutto quello che si complimentava con me per aver fatto un buon lavoro (Otsukaresamadeshita!).


Abbiamo così proseguito la visita all’interno del museo, ma non abbiamo potuto dedicargli tanto tempo. L’ultimo traghetto verso l’Hakonejinja sarebbe partito da lì a poco. Abbiamo fatto appena un giro veloce e siamo uscite, per poi vedere il traghetto che dovevamo prendere attraccare al molo in quel momento.


Abbiamo iniziato a correre per tutto il Sekisho a ritroso per riuscire a raggiungerlo prima che ripartisse. Non voglio pensare nemmeno alla figuraccia e  quanta gente abbiamo rischiato di atterrare nella foga della corsa, ma come ho già detto, quello era l’ultimo traghetto. Dovevamo riuscire a prenderlo per forza.
Anche questa volta siamo riuscite nell’intento solo perché i controllori ci hanno visto correre in lontananza e hanno aspettato il nostro arrivo per dare il segno per la partenza. Quanti altri mezzi avremmo fatto partire fuori orario con i nostri ritardi?
La cosa che mi ha fatto un po’ sorridere e che ho trovato tipicamente giapponese, è stato che nonostante il ritardo, abbiano voluto vedere i nostri pass. Non che sia sbagliato, anzi, ma quando ce li hanno chiesti, mia sorella ha subito tirato fuori il suo, mentre io continuavo a cercare in borsa senza riuscire a trovare il mio. In Italia mi avrebbero detto “Va be’, non fa niente, sali”, mentre qui il controllore ha preferito attendere pazientemente che lo trovassi prima di farmi passare.
Anche sta volta il breve tragitto in traghetto è stato molto piacevole. E dire che io soffro il mal di mare. Dopo un breve incontro con la nave dei pirati che solcava il lago Ashi, siamo riuscite a vedere in lontananza il torii che dall’acqua sottolineava la presenza dell’Hakonejinja.



 

Una volta attraccate, abbiamo seguito il lungolago in direzione del torii fino ad arrivare al santuario.

 


L’Hakone-jinja era raggiungibile passando attraverso un percorso di torii e lanterne rosse ed era completamente immerso tra altissimi alberi verdi.



Una volta in cima abbiamo purificato mani e bocca al chozuya e siamo andate anche noi a dare il nostro saluto agli dèi.



Siamo poi ridiscese passando dal portale principale fino a raggiungere il torii d’ingresso costruito sull’acqua. La foto con salto era praticamente d’obbligo.



Alcuni ragazzi ci hanno poi chiesto di scattargli una foto e ce ne hanno scattato una in cambio.


Lasciato anche l’Hakonejinja ci siamo dirette verso la fermata dell’autobus per tornare indietro ad Odawara. Mai fermata fu più infrattata. Ci abbiamo messo un’ora buona per trovarla. Abbiamo percorso più volte la riva in entrambe le direzioni. Quando finalmente pensavamo di essere giunte alla meta abbiamo poi scoperto che si trattava della fermata dell’autobus di un’altra compagnia che offriva un pass che all’epoca avevo scartato perché molto più costoso di quello che avevamo acquistato noi.
Quando alla fine, grazie anche alle informazioni dateci dall’autista dell’altra compagnia, abbiamo raggiunto la fermata, l’autobus era già in partenza. Ma perché quel giorno non era destino riuscissimo a prendere un mezzo pubblico senza dover correre come matte?
Fortunatamente questa volta a farci compagnia nel ritardo c’erano anche due ragazzi, per cui ci siamo sentite meno in colpa.
Approdate nuovamente a Tokyo, eravamo talmente esauste da decidere di saltare la cena, in cambio di un buon sonno ristoratore in preparazione della gita fuori Tokyo del giorno dopo. La meta? Questa volta non ve lo dico. Aspettate il prossimo post (😁).

Nel caso foste in cerca di idee per gite in giornata da Tokyo vi lascio qui i link a quelle fatte da noi:
Nikko
Kamakura
Yokohama

Per il racconto della nostra settimana a Tokyo:
Orologio Ghibli e karaoke
Palazzo Imperiale, butler's cafè e Korea Town
Kanda Myojin, Koishikawa Korakuen, Yasukuni-jinja e Kagurazaka
Tokyo Metropolitan Governement Offices e Museo Ghibli
Odaiba e Oedo Onsen
Sensoji e Tokyo Sky Tree
Sumo e giardini giapponesi
Harajuku, Shibuya e Tokyo Tower
Vestizione kimono e Parco di Ueno

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