Giorno 14: Takayama, una notte in ryokan


Seconda domenica in Giappone e giorno di partenze. Quello difatti era il giorno stabilito per lasciare definitivamente Tokyo e il Kanto ed esplorare una nuova regione, il Chubu, famosa per i suoi paesaggi montuosi. Destinazione Takayama, prefettura di Gifu.
Ora se, ingenuamente come me, state pensando che Takayama non è poi geograficamente così lontana da Tokyo, per cui prendendo uno shinkansen avrete tutto il giorno per esplorare la città, ricredetevi!
Takayama dista da Tokyo ben 4 ore, per cui considerate che metà giornata la passerete sul treno. Il modo più veloce per raggiungere la città da Tokyo è prendere uno shinkansen fino a Nagoya e poi cambiare con il JR Hida Limited Express con destinazione Takayama (tutto compreso nel JRP).

© soramimi
Il JRP vi permette di riservare anche i posti a sedere sui treni, basta recarsi prima all’ufficio addetto (Midori no Madoguchi) e prenotare. Badate bene che i posti finiscono molto presto per cui se volete prenotare fatelo almeno il giorno prima. Non ricordo di aver mai trovato posti disponibili cercando di prenotare il giorno stesso.

© Kirakirameister
Vista la lunga percorrenza che ci attendeva, tra l’altro con cambio treno, ci siamo premunite cominciando con il disfarci dell’ingombro delle valigie. Come? Le abbiamo spedite.
Il giorno stesso della partenza abbiamo chiesto alla reception del nostro hotel di compilare i moduli necessari e abbiamo lasciato loro in consegna i nostri bagagli. Abbiamo deciso di spedirle direttamente al nostro hotel di Kanazawa, dove le abbiamo ritrovate il giorno dopo che ci attendevano.
Se vi state chiedendo come abbiamo fatto a spiegare allo staff dell’hotel che volevamo spedire le valigie e dove, vi svelerò il segreto.  Merito del nostro ottimo inglese? Manco per niente. Ci ho provato eh, ma è stato inutile, non capivano.
Il mio consiglio è di non provarci nemmeno a spiegarvi. Stampate o mostrate da cellulare la vostra prenotazione dell’hotel nel quale volete inviare i vostri bagagli allo staff e usate la parolina magica: Takkyubin.

© Kanpai
 La receptionist, il cui sguardo fino a poco prima sembrava perso e in panico, alla parola magica si è improvvisamente animata, compilando i moduli e prelevando le nostre valigie alla velocità della luce. Mi sono sentita come davanti a un robot che fino a poco prima non riuscivo a far funzionare solo perché mi ero scordata di schiacciare il tasto di accensione.
 
© Kanpai
Diretteci quindi più leggere alla stazione abbiamo visto bene di acquistare anche un bento (pranzo da asporto) da mangiare sul treno, visto saremmo giunte a destinazione verso le 15.
C’era già capitato di comprare dei bento quando una sera eravamo stanche e non avevamo voglia di uscire dall’hotel per cenare, ma non ci erano piaciuti molto, perché comunque si tratta di cibo che magari è stato preparato la mattina e poi si è raffreddato, e il cibo freddo non è mai così buono.


Mi sono dovuta ricredere su questo punto. In un mese di viaggio c’è capitato forse 4 volte di acquistare dei bento e due di queste è stato in stazione per affrontare un viaggio in treno.
I bento che vendono in stazione si chiamano ekiben e non so esattamente cosa cambi o se è dipeso solo dalla scelta degli ingredienti all’interno, ma sono tutta un’altra cosa rispetto ai bento che potete trovare normalmente nei supermercati. Per quanto mi riguarda, sono i pranzi a sacco più buoni del mondo. Mai mangiato meglio.
Per il nostro viaggio abbiamo quindi acquistato due diversi ekiben da smezzarci, e siamo salite sullo shinkansen.

Bento 1: un letto di riso in bianco ricoperto da diversi tipi di pesce, accompagnato da una frittatina, verdure e alghe
Bento 2: polpette di riso con vongole e con anguilla caramellata, frittatina, verdure, crocchetta e gambero fritto
Sul treno non c’era molta gente ma giusto qualche sedile davanti a noi c’era un gruppo di signore giapponesi che stavano facendo un viaggio insieme. Hanno attirato la nostra attenzione perché chiacchieravano a voce alta. Sulla metropolitana a Tokyo, nonostante sia sempre affollatissima, sembra come se tutti si siano accordati per non fare il minimo rumore.  L’unico suono è quello dell’altoparlante che annuncia le fermate.
Per una volta è stato piacevole fare un viaggio accompagnate da un po’ di chiacchiericcio. Ci siamo sentite più libere di chiacchierare anche noi senza paura di disturbare gli altri.
All’ora di pranzo tutte le signore hanno tirato fuori i loro ekiben e hanno iniziato ad alzarsi dai loro sedili. Non capendo cosa stessero facendo le abbiamo seguite con lo sguardo e le abbiamo viste, con un solo colpo della mano, far ruotare i loro sedili, in modo da formare una specie di piccola tavolata e mangiare tutte insieme.
In pratica tutti i sedili potevano essere ruotati al fine di essere sempre disposti in modo da seguire la direzione in cui andava il treno. E noi c’eravamo fatte quasi tutto il viaggio all’indietro. Buono a sapersi.

© tinnhatban.com

Abbiamo deciso che almeno il pranzo volevamo farlo nella giusta direzione. Cercando di imitare le mosse delle signore abbiamo iniziato a colpire il sedile per farlo girare. Ovviamente non si è smosso di un millimetro. Dopo un buon pezzo passato a provarne di ogni, alla fine una delle signore, mossa a compassione, è venuta ad aiutarci. Peccato sia stata tanto veloce che non abbiamo neppure capito come ha fatto.
Arrivate a Nagoya abbiamo cambiato treno. Stavolta la carrozza era completamente piena per cui anche io e mia sorella non abbiamo trovato posti insieme a sedere. Ci siamo così sedute in due posti vicini, separate dal corridoio centrale. Al mio fianco un salaryman che sembrava davvero esausto e si è passato le due ore di viaggio a dormire. Mia sorella invece è capitata seduta vicina a una signora anziana.  

© Kone
Non so se dipenda dall’età o sia una questione caratteriale ma gli anziani, in Giappone, sono sicuramente le persone più socievoli verso gli stranieri. Non appena mia sorella si è seduta, la signora ha iniziato a intavolare una conversazione. La cosa buffa è che ovviamente parlava in giapponese e anche fosse chiaro che mia sorella non capiva niente, lei andava avanti imperterrita facendo milioni di domande. A ogni nuova frase mia sorella si girava verso di me in segno di aiuto. La signora parlava a voce bassa per cui dalla mia posizione coglievo una parola su venti (anche se probabilmente seduta vicina sarebbe stato lo stesso) e sulla base di quella dicevo a mia sorella cosa secondo me chiedeva e lei rispondeva in inglese, di cui la signora non capiva niente per cui poi dovevamo trovare la parola corrispondente in giapponese da usare, o almeno quella di nostra conoscenza più vicina all’ambito della risposta corretta.

La conversazione è stata una cosa del genere:
(Per comodità userò i punti di sospensione per le parti di frase che non ho afferrato e le seguenti sigle per far meglio capire chi parla: SG per la signora giapponese, D per mia sorella, I quando parlo io)

SG: << …namae… ? >>
D: << Che ha detto?>>
I: << Credo vuole sapere come ti chiami>>
D: << Diana>>
SG: << Ah Dianaa, soka soka. … tomodachi…?>>
I: << Forse chiede se siamo amiche>>
D: << Sisters>>
SG: << Sistaar?>>
D: << Onee-chan>>
SG: << Oh onee-chan! … shigoto…?>>
I: << Forse vuole sapere che lavoro fai>>
D: << Ah, nurse>>
SG: << Nurs? >>
D: << Hospital>>
SG: << Osupita? >>
I: << Byoin>>
SG: << Oh, byoin? Dokutar>>
D: << No, no doctor, nurse, help doctor>>
SG: << Ah nursu! ... Doko… ?>>
I: << Forse chiede dove andiamo>>
D: << Come si chiama il paese dove andiamo?>>
I: <<Takayama>>
D: << Ah ok, Takayama>>
SG: << Ooh, Takayama! … watashi, … onsen>>
D: <<Ah, onsen!>>

Insomma, dopo un’ora e mezzo di viaggio insieme e con una conversazione di questo livello, la signora ci ha persino preso in simpatia e ci ha regalato un dolcetto tipico di Nagoya che aveva comprato prima di salire. È stata troppo carina!


È scesa in un paesino, di cui non ricordo il nome perché da un certo punto della percorrenza tutte le fermate si chiamavano “qualcosa onsen”, che aveva un paesaggio stupendo. Tutta la tratta in treno Nagoya –Takayama presentava dei paesaggi incredibili. Stavo quasi facendo un pensierino sul se seguire la signora alle terme, quando il treno è ripartito.
Siamo arrivate a Takayama in perfetto orario. Dalla stazione abbiamo raggiunto il nostro hotel in una decina di minuti. Visto si trattava di una sola notte, questa volta avevamo deciso di dormire in un ryokan, un hotel in stile tradizionale con i pavimenti in tatami e i futon al posto dei letti.


Il costo del ryokan è stato molto più elevato rispetto a quello di un comune hotel o ostello ma nella prenotazione erano compresi anche la cena kaiseki e la colazione (a scelta tra all’americana o alla giapponese) e in fondo quello che si paga è l’esperienza. Non è solo dormire in un luogo insolito, è vivere per un giorno fuori dal tempo, in un’altra epoca e luogo rispetto a quello al quale siamo abituati, è farsi coccolare e rilassarsi con bagni caldi e cibo delizioso.


Il nostro ryokan affacciava direttamente sul fiume Miyagawa, per cui appena arrivate, prima ancora di smollare i nostri trolley e zaini, ci siamo precipitate ad affacciarci dal ponte che attraversava il corso d’acqua, e poi a fotografare l’esterno della struttura.



Ancora intente a scattare foto, abbiamo visto la porta del ryokan spalancarsi e un signore anziano uscire per accoglierci all’interno. Era il proprietario. Mi sono sentita un po’ scema, come colta con le mani ancora nel barattolo della nutella, ma lui è stato davvero carinissimo, ci ha invitato ad entrare con un sorriso enorme e ci ha preceduto per metterci a disposizione due paia di ciabatte da usare al posto delle nostre scarpe che andavano lasciate all’ingresso. 
L’atrio presentava un enorme armadio pieno zeppo di oggetti delle più svariate tipologie ma tutti evidentemente antichi. La sensazione è stata quella di entrare nello studio di un antiquario. Davanti all’armadio tre sedie e un tavolinetto basso.



Poco dietro si apriva un’altra stanza, separata dall’atrio da porte scorrevoli in legno e carta di riso, al cui centro si trovava un braciere, con attorno quattro cuscini bassi per sedersi attorno al fuoco.



Una signora anziana, la moglie del proprietario, è arrivata anche lei per accoglierci e ci ha accompagnato nella nostra stanza, dove ci ha offerto asciugamani caldi, tè matcha in grandi tazze di ceramica decorata e biscotti con sopra la stampa di un coniglio.



Prima di entrare abbiamo lasciato le nostre ciabatte all’ingresso della stanza, avanzando a piedi scalzi sul tatami.
La stanza si trovava al primo piano ed era spaziosa e luminosa. Al centro della stanza c’era un tavolino basso con due sedute sul quale era poggiato tutto l’occorrente per preparare il tè.


Un paravento dipinto bloccava la vista all’ingresso, mentre sul lato opposto della stanza le porte scorrevoli immettevano in una sorta di verandina con tavolino e due sedie dal quale si poteva vedere il giardino giapponese del ryokan e il fiume sottostante. Peccato la vista fosse leggermente ostacolata dalla presenza delle lamiere del tetto.





La signora ci ha subito avvertito che quello era il posto prediletto di un gattone che era ormai entrato a far parte della famiglia e che se non volevamo che entrasse in camera era meglio non aprire le finestre quando si trovava nei paraggi.


Su un lato della stanza si trovava poi un grosso armadio contenente i futon, gli asciugamani per il bagno (esterno alla stanza e in comune con gli altri ospiti) e gli yukata da indossare durante il nostro soggiorno.


Dal lato opposto il tokonoma (una zona leggermente sopraelevata e addossata alla parete, tipica delle stanze tradizionali giapponesi) ospitava un bel kakemono (un rotolo dipinto e appeso verticalmente) e altri oggetti antichi.


Una volta bevuto il tè offertoci e organizzate le nostre cose, mancava ancora un bel po’ all’ora di cena per cui abbiamo deciso di uscire ad esplorare la città. Quello era il nostro unico giorno a Takayama per cui dovevamo approfittarne.
Percorrendo il lungo fiume abbiamo raggiunto la zona più antica e caratteristica della città, Sanmachi.


L’idea iniziale era quella di visitare il Takayama Jinjya ma quando siamo arrivate era già chiuso, per cui ci siamo limitate a fare un giro tra le caratteristiche case e i negozietti in legno nero. Sembra che questo colore particolare fosse dovuto al fatto che i proprietari avessero impiegato la fuliggine per nascondere di aver costruito le proprie abitazioni usando legno pregiato, in quanto all’epoca ne era vietato l’utilizzo a scopo privato.



Molti negozi presentavano appesa sulla porta d’ingresso una sfera fatta di rami intrecciati e con attorno una corda su cui erano appesi degli shide. Si trattava dei sugidama, segno distintivo delle distillerie di sakè, non per niente accanto all’entrata erano spesso disposti dei barili con la famosa bevanda.



Abbiamo visitato vari negozietti, imbattendoci più volte nella mascotte della città, Sarubobo (a mio avviso davvero brutta) e abbiamo assaggiato alcuni snack tipici, tra cui dei senbei al sesamo (una sorta di crackers) che erano la fine del mondo, tanto che abbiamo deciso di comprarne un pacco da portare in Italia.   


Siamo giunte infine ad un mercatino all’aperto, che però era già in chiusura, appena in tempo per avvistare un chioschetto che vendeva mitarashi dango (spiedini fatti con palline di farina di riso glutinoso caramellati con salsa di soia). L’assaggio era d’obbligo. Peccato la foto non sia venuta delle migliori.


Calata la sera siamo ritornate al ryokan, decise a goderci a pieno l’esperienza, a cominciare dall’ofuro che volevamo provare da quando eravamo arrivate. Al piano terra si trovava difatti un bagno in stile tradizionale giapponese, che presentava la vasca con l’acqua calda da una parte e i rubinetti e i prodotti per la doccia dall’altra. Questo perché in Giappone è tradizione lavarsi prima e purificare il corpo, e solo una volta puliti, immergersi nella vasca per rilassarsi. Questo tipo di bagno era in comune tra tutti gli ospiti, come avviene normalmente nelle terme giapponesi, in cui anche perfetti sconosciuti si immergono nudi insieme, ma il nostro ryokan ne permetteva l’uso privato, per cui volendo ci si poteva chiudere dentro e godersi il bagno anche da soli. Inutile dire quale opzione abbiamo scelto noi.



Siamo entrate con l’idea di calarci il più possibile in questa esperienza tradizionale e seguirne tutti i passaggi, ma mai mi sarei aspettata di non voler più uscire da quella vasca. Forse è che in Italia la vasca si usa così poco o in generale siamo sempre presi da questa fretta continua che si preferisce la doccia per far prima, ma mi sono ritrovata a pensare che non mi sentivo così bene e rilassata da secoli e che l’ultima volta che avevo utilizzato la vasca era quando ero molto piccola e ancora io e mia sorella ci entravamo insieme a giocare con le paperelle la domenica mattina.
Si stava così bene che per poco non ci accorgevamo che l’ora della cena era già arrivata e saltavamo il pasto. Abbiamo infilato il più velocemente possibile gli yukata e ci siamo dirette di nuovo in camera dove la proprietaria stava già portando i piatti.
Non appena mi ha visto entrare in stanza la proprietaria mi è venuta incontro e mi ha slacciato lo yukata. All’inizio mi ha lasciato un po’ spiazzata ma poi ho capito che stava tentando di sistemarlo, infatti lo avevo chiuso completamente al contrario. Ho guardato mia sorella e l’ho vista trafficare con il suo seguendo i movimenti della signora. Anche lei aveva fatto lo stesso sbaglio. Ad entrambe era venuto automatico mettere la parte destra sopra quella sinistra ma era un errore, andava chiuso esattamente nel verso opposto.


Il piccolo incidente ci ha però permesso di fare amicizia con la signora che era simpaticissima e si è soffermata a farci tante domande e a spiegarci tutti i piatti presenti nella cena e come mangiarli. Questo excursus nella cucina kaiseki è stato davvero interessante. Sapevamo che si trattava di cucina d’alto livello fatta di portate piccole ma numerose, ma non ci aspettavamo tanto. In poco tempo il tavolo si è riempito di un’infinità di piccoli capolavori.


Sashimi, tempura, zuppa di miso, pesce scottato, riso, sottaceti (ma quanto sono buoni i sottaceti giapponesi), verdure, frutta e soprattutto la pregiata carne di Hida, il tutto accompagnato da tè verde ed umeshu, un liquore alle prugne che era la fine del mondo.







Alcune cose erano davvero buonissime, altre, tipo certe verdure, le ho mandate un po’ giù a forza, ma nel complesso è stata davvero un’ottima cena.


Dopo un paio d’ore la proprietaria è tornata a trovarci per sparecchiare e chiederci se volevamo che preparasse i letti. Abbiamo detto di si, per cui assieme ad una collaboratrice è venuta a spostare il tavolo e a montare i futon.



Siamo rimaste a chiacchierare un altro po’ e poi abbiamo deciso che era il momento di andare a letto. Ci siamo quindi dirette verso i servizi del nostro piano per lavarci i denti (nel ryokan il bagno tradizionale si trovava su un piano diverso rispetto ai gabinetti e ai lavandini che invece erano su tutti i piani) e qui ci siamo trovate davanti uno spettacolo così insolito che io stessa stentavo a credere a ciò che i miei occhi vedevano.
Lo so cosa state pensando: eccola che torna a parlare di bagni, ma credo lo fareste anche voi se andando a lavarvi le mani vi ritrovaste faccia a faccia con un’armatura antica giapponese. All’inizio pensavo di aver sbagliato stanza, ma proprio lì, accanto a vasi antichi di tutte le fogge e dimensioni, katane, incisioni e oggetti vari per cui potrei impiegare ore se stessi qui a descriverli tutti, c’erano dei moderni e comunissimi lavandini. Era un contrasto così forte che aveva dell’assurdo. E poi che ci faceva tutta quella roba in un bagno?


Ho usato i lavandini quasi in soggezione, con l’inquietante presenza dell’armatura che sembrava osservarmi tutto il tempo e spaventata di schizzare in giro o urtare per disattenzione qualche oggetto lì intorno.


Sono tornata in stanza sentendo un brivido freddo lungo la schiena, ma forse era solo colpa della temperatura che si era abbassata e del fatto che indossavamo solo quello yukata leggero.
Abbiamo così chiuso le porte scorrevoli della verandina per evitare eventuali spifferi provenienti da fuori, scoprendo invece con sorpresa che i pannelli presentavano dei vetri, nascosti dietro la carta di riso, e che era possibile far scorrere i pannelli in carta di riso verso l’alto in modo da avere la vista sulla verandina e quindi sull’esterno anche con le porte chiuse.



Ci siamo infine messe a letto con una domanda in testa. Sarà vero che dormire nei futon è scomodissimo perchè è come dormire a terra? La notte ci avrebbe dato la risposta.


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