Giorno 15: Takayama, il villaggio di Hida


Il risveglio nel ryokan è avvenuto ai primi raggi del sole che filtravano dalle vetrate delle porte in legno e carta di riso che avevamo lasciato aperte la sera prima. Non ho fatto nessuna fatica ad alzarmi, per la prima volta davvero riposata. Dopo ben due settimane di viaggio passate a dormire in due in un letto da una piazza e mezzo, il futon mi ha permesso di ritrovare i miei spazi. Il materassino di cui era composto inoltre, era abbastanza spesso da non far assolutamente percepire la sensazione di star dormendo sul pavimento. Persino mia sorella, che solitamente la mattina fa molto più fatica di me a carburare, ha accettato di alzarsi dopo essere stata chiamata solo due volte.


La mattina dopo il nostro arrivo a Takayama mi sentivo ancora euforica per l’esperienza del ryokan, sentivo che non potevo continuare a perdere tempo a dormire, che volevo vivere a pieno ogni secondo che mi rimaneva di permanenza in quel luogo che sembrava fermo nel tempo.
Svegliateci alle 6.00, mancavano ancora due ore alla colazione. Cosa potevamo fare? Ci siamo preparate del tè verde con l’occorrente datoci in dotazione all’arrivo e poi, all’orario di apertura del bagno tradizionale, ci siamo precipitate dentro. Lo so avevamo già provato quest’esperienza la sera prima, ma era stato così rilassante che abbiamo deciso di rifarlo, considerando non avremmo avuto altre occasioni in futuro di avere una vasca così grande solo per noi.


Lasciati gli yukata all’ingresso, con cui avevamo dormito, siamo rimaste dentro a goderci il tepore dell’acqua calda fino a quasi l’ora di colazione. Rindossati i nostri vestiti, ci siamo dirette nuovamente in camera, dove avevano già smontato i nostri futon e il tavolino basso con le sue sedute era ricomparso al centro della stanza.


La nostra ormai amica e padrona di casa è arrivata poco dopo con la nostra colazione giapponese. Ci ha invitato a sederci al tavolino e ci ha messo davanti due vassoi identici con dentro una tazzina per il tè, una ciotola per il riso e tre ciotoline con diverse verdure, da me non identificate, alcune bollite, altre sottaceto. Un’altra ciotolina conteneva una bustina con sopra un Sarubobo rosso.


A quelli che erano i contorni della nostra colazione si sono presto aggiunti del salmone scottato, una zuppa di miso, un uovo al tegamino e un fornelletto con sopra una foglia di magnolia sul quale cuoceva l’hoba miso, un piatto a base di miso, cipolle, funghi shitake e carne di Hida, che era nella mia lista dei piatti tipici da provare a Takayama.




La signora ci ha spiegato che l’hoba miso andava mangiato insieme al riso. Ha così versato della salsa di soia in una ciotolina, ha aperto la bustina con sopra Sarubobo che abbiamo scoperto conteneva alghe nori, le ha intinte nella soia e poi le ha usate per catturare il riso a formare una sorta di onigiri su cui ha poi depositato l’hoba miso. Se non ce lo avesse spiegato dubito fortemente che saremmo arrivate a capire che il procedimento da usare era quello, probabilmente avremmo mangiato tutto separatamente.


L’hoba miso era anche più buono di quello che mi aspettassi, mi sono piaciuti molto anche i sottaceti, mentre le verdure bollite erano tremende. Nonostante fosse un po’ strano mangiare quelle cose alle 8 del mattino, non abbiamo fatto nessuna fatica a finire tutta la colazione.
Abbiamo lasciato la nostra stanza un po’ a malincuore e armate dei nostri trolley siamo riscese al piano terra per lasciare le nostre cose in deposito ai gentili proprietari, in modo da affrontare più agilmente l’escursione della giornata. L’idea era quella di dirigerci direttamente in stazione per prendere i mezzi, ma la vista dei mercatini del mattino sul lungofiume ci ha distratto dalle nostre intenzioni.


Abbiamo fatto un giro tra le bancarelle, poi ci siamo accorte che era possibile scendere lungo gli argini del fiume. Abbiamo visto alcune persone che passeggiavano e altre che stavano lì a pulire e come al solito ci siamo fatte trascinare dall’entusiasmo di fare qualcosa che non avevamo mai fatto prima e siamo scese anche noi.




Il fiume scorreva piano su un lato, appena scrosciava tra le rocce, incanalato tra due diversi livelli di argini. Era una passeggiata tanto piacevole che abbiamo perso la nozione del tempo.



Camminare lungo il fiume ci aveva solo allontanato dalla stazione per cui siamo tornate sui nostri passi cercando di prendere una strada alternativa che ci facesse risparmiare un po’ del tempo perso.
Mentre seguivamo diligentemente il percorso indicato da Google Maps però, abbiamo intravisto in lontananza una pagoda a tre piani. Capite bene che nonostante il ritardo sulla nostra tabella di marcia non potevamo far finta di niente e andare avanti. La pagoda andava raggiunta. Abbiamo così deviato, nonostante le insistenze del cellulare che continuava a ripetere di tornare indietro.


La pagoda ci ha portato alla scoperta di un tempietto carinissimo tutto dedicato a Sarubobo, che sarà anche la mascotte più brutta del mondo, ma a furia di vederlo ovunque, avevo finito con l’affezionarmi anche a lui. Voglio dire senza Sarubobo Takayama avrebbe perso un po’ della sua essenza.




Giunte finalmente in stazione abbiamo acquistato i biglietti e abbiamo preso l’autobus che in un quarto d’ora ci ha condotti alla nostra meta, il villaggio di Hida. Abbiamo acquistato dei biglietti cumulativi che comprendevano sia il viaggio di andata e ritorno che l’ingresso al villaggio.


Il villaggio di Hida (Hida no sato) è un museo a cielo aperto nel quale è stato ricostruito un villaggio popolare  tradizionale . Fu aperto nel 1971 con il fine di preservare la cultura e le tradizioni regionali.
Composto da una trentina di case prelevate da differenti zone della regione di Hida, include case con tetti a scandole e altre costruite secondo lo stile detto gassho-zukuri (mani in preghiera), che si caratterizza per la forma spiovente del tetto, utile al fine di non far depositare la neve nel periodo invernale.






Esistono nella prefettura di Gifu altri villaggi simili tra cui i ben più grandi e noti Shiragawago e Gokayama, ma ho deciso di visitare questo perché era il più vicino a Takayama e questo avrebbe richiesto meno tempo per gli spostamenti.
All’ingresso ci è stato consegnato un depliant sul quale era possibile apporre dei timbri che avremmo trovato sparsi per il villaggio. Sotto una tettoia vicino all’ingresso abbiamo trovato il primo raffigurante una delle case del villaggio, e con quello la stagione della caccia al timbro ha avuto inizio.

 

Sotto il tendone erano presenti anche dei giochi tradizionali. Ne abbiamo provato qualcuno prima di metterci in marcia.



Il villaggio partiva da un lago centrale per poi svilupparsi in altezza lungo il terreno in salita. Le case realizzate in legno e paglia, spuntavano qua e là tra gli alberi tinti dei colori autunnali.

 



Su alcune case era possibile visitare più piani fino ad arrivare al sottotetto per capire come esso fosse stato costruito.

  

Una casa che sembrava un po’ più ricca racchiudeva al suo interno varie stanze con il pavimento in tatami o in legno e dei bracieri al centro. Presentava inoltre una stanza con l’altare di famiglia.

 



La casa che affacciava sul lago aveva una ruota su un fianco, probabilmente si trattava di un mulino, mentre un’altra coperta di ruote su tutta la facciata doveva produrre carri per il trasporto di diversi materiali.
 


All’ingresso di ogni casa bisognava lasciare le scarpe e proseguire la visita scalzi. Sebbene dover ogni volta togliere e mettere le scarpe potesse essere fastidioso, la sensazione del legno o del tatami sotto i piedi valeva lo sforzo ed era come se si finisse per essere più partecipi della vita stessa che scaturiva dai racconti che ogni casa aveva da offrire.


Oggetti d’uso quotidiano e utili al lavoro si trovavano in ogni abitazione, così avveniva che una casa parlava della tessitura, una della realizzazione di attrezzi per la costruzione dei tetti, un’altra della costruzione di slitte per spostare i tronchi tagliati e un’altra della realizzazione della seta.






La seta veniva creata artigianalmente, in dei locali appositi e arieggiati, a partire dall’allevamento dei bachi. Ne abbiamo visto i bozzoli attaccati a dei graticci realizzati appositamente per contenerli.



Nel villaggio si trovava anche un piccolo santuario con il suo torii, la sua lunga scalinata d’accesso circondata da alti alberi e la sua campana in bronzo.






 

Abbiamo percorso tutto il villaggio e siamo entrate in ogni casa aperta. All’inizio è stato molto interessante, poi credo che a spingerci sono state più le nostre manie di collezionismo (non sia mai che ci sfuggisse un timbro!). Il fatto è che, nonostante ognuna avesse qualcosa di particolare rispetto alle altre, alla fine le case si assomigliavano un po’ tutte, per cui non credo che visitare Shiragawago o Gokayama avrebbe apportato qualcosa in più al nostro viaggio.
 


Rientrate a Takayama, siamo andate a cercare un posto dove pranzare. A dire il vero, dopo l’abbuffata della mattina, di cibo giapponese ne avevamo abbastanza, ma allo stesso tempo non ci fidavamo a mangiare cibo italiano in Giappone. Cosa fare? A risolvere il nostro dubbio amletico è comparso come per magia un ristorante che proponeva hamburger di carne di Hida. Bene! Potevamo mangiare americano e giapponese in una volta sola.


Siamo entrate già sicure di cosa ordinare ma appena la cameriera mi ha messo davanti il menù, ho visto qualcosa che mi ha subito fatto cambiare idea. Un piatto di formaggio fuso e insalata. Insalata. Non credevo fosse possibile sentire la mancanza di lattuga e pomodoro fino a quando non sono partita per il Giappone. Com’è possibile che in questo Paese sia tanto difficile trovare delle verdure crude nei ristoranti?
Considerato di cosa si componeva il piatto il prezzo non era esattamente economico, per cui ho provato a resistere. Ma non ce l’ho fatta. Ogni cellula del mio corpo stava gridando: “Voglio quell’insalata!”
Ho finito così per ordinarla, mentre mia sorella è rimasta ferma sulle sue convinzioni e ha preso l’hamburger.


Mi sono gustata quel piatto neanche fosse la fetta di torta più buona del mondo (o un tramezzino con la maionese nel caso di mia sorella). Ho sentito come se il mio corpo si rigenerasse ad ogni morso. Ne avevo proprio bisogno.
Siamo così ritornate in ryokan per recuperare i nostri trolley e dirigerci in stazione. I proprietari sono venuti entrambi a salutarci all’ingresso e insieme ai nostri bagagli ci hanno consegnato anche un piccolo regalo, delle bacchette di legno laccato di rosso.
Ci è dispiaciuto doverli salutare, erano diventati ormai i nostri nonni giapponesi e ci eravamo affezionate. Ma il treno per Kanazawa ci attendeva e avevamo davanti ancora quasi 3 ore di viaggio.

© retro-station.jp
Per raggiungere Kanazawa da Takayama basta prendere la JR Takayama line fino a Toyama e poi lo shinkansen fino a destinazione (tutto compreso nel JRP).
Il viaggio è filato liscio senza nessun aneddoto degno di menzione e quando finalmente siamo giunte a Kanazawa era già buio e la pioggia, la quale per due giorni sembrava essersi presa una vacanza, è tornata al lavoro più laboriosa che mai.
 
Stazione di Kanazawa
Abbiamo trovato la fermata della JR per raggiungere il nostro hotel quasi subito e in pochi minuti è arrivato anche l’autobus. Peccato non avessimo avuto abbastanza tempo per capire quale fosse la nostra fermata. Ricordavo solo che il nostro hotel era ad una ventina di minuti a piedi dal Kenrokuen, uno dei tre giardini più belli del Giappone e principale attrazione della città, e che in quella zona si trovava anche la fermata dell’autobus alla quale dovevamo scendere.
Con il buio e la pioggia però non era facile capire dove si stesse dirigendo l’autobus per cui non appena abbiamo sentito la voce registrata pronunciare l’unica parola a noi familiare, kenrokuen appunto, siamo scese.
Trafficando con ombrelli, trolley e borse abbiamo infine recuperato un cellulare, non senza esserci inzuppate dalla testa ai piedi.  Abbiamo avviato la ricerca dell’hotel su Google Maps e con sommo fastidio abbiamo scoperto che a separarci da esso erano ben 45 minuti di strada.
Il motivo? Eravamo scese alla fermata kenrokuen, che si trovava effettivamente vicino al Kenrokuen, ma dal lato opposto  del giardino rispetto a quello più vicino al nostro hotel.
Ci siamo armate di pazienza e abbiamo percorso il perimetro del giardino fino a raggiungere un’altra fermata del bus JR, quella a cui saremmo dovute scendere,  e il cui nome incomprensibile ci sembrava improvvisamente familiare. Lo avevamo sentito uscire dall’altoparlante poco prima di scendere alla fermata kenrokuen. Insomma se fossimo scese una fermata prima ci saremmo risparmiate molta strada e pioggia.

In pratica dovevamo scendere al n. 8 e siamo scese al n. 9  © pinterest
Ormai era fatta. Abbiamo proseguito per altri venti minuti  fino a raggiungere il nostro alloggio dove ci attendevano le nostre amate valigie (di cui non eravamo certe fino a quel momento avremmo rivisto il contenuto) e un nuovo letto a una piazza e mezzo che mi ha fatto rimpiangere i futon del ryokan.
 

A chiunque sia interessato a scoprire e vivere anche gli aspetti più tradizionali del Giappone consiglio assolutamente l’esperienza del ryokan. Non è un alloggio economico ma per una notte vale assolutamente la pena spendere un po’ di più per immergersi a pieno in una cultura diversa. Oggi in Giappone esistono molti tipi di ryokan, alcuni davvero moderni e di lusso, ma io consiglio di sceglierne uno antico a conduzione familiare come quello in cui siamo state noi. All’interno si percepisce un’atmosfera completamente diversa, il calore e la cortesia con cui siamo state accolte credo difficilmente le avremmo trovate altrove.
Se poi qualcuno fosse interessato proprio a quello in cui siamo andate noi e volesse avere più informazioni non esiti a mandarmi un messaggio. Potete anche scrivermi sulla pagina Facebook.

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Al prossimo post dove vi porterò in giro per Kanazawa.

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