Giorno 13, parte 1: Alla scoperta della prefettura di Chiba. Il monte Nokogiri
Tra
i luoghi che desideravo più visitare in Giappone c’era sicuramente il Nihon-ji
sul monte Nokogiri. Ho scoperto
l’esistenza di questo tempio per puro caso, in una delle mie insaziabili
ricerche riguardo il Giappone, e ne sono rimasta subito affascinata. A
differenza di molti altri posti del Giappone,
celeberrimi tra i turisti stranieri, questo
luogo è sconosciuto ai più e ignorato persino dalle guide turistiche, ragione per la quale riuscire a reperire informazioni a
riguardo è stato piuttosto difficile.
Il
motivo per cui questo tempio sia così poco conosciuto rimane davvero un mistero
per me, ancora di più considerando che si tratta di un luogo assolutamente
suggestivo, immerso nella natura e che custodisce la più grande statua di
Buddha seduto esistente in Giappone (si, la più grande non è quella di Kamakura e
neppure quella del Todai-ji a Nara ma proprio quella del monte Nokogiri).
Il
modo più rapido per arrivarci (e compreso nel JRP) partendo dalla stazione di
Tokyo è quello di prendere la JR Sobu line fino a Chiba e poi la JR Uchibo line
fino ad Hama-kanaya.
Il viaggio dura circa 1ora e 45 min e non trattandosi di uno shinkansen in qualche modo si ha tutto il tempo di godersi il cambiamento. Il treno dapprima rumoroso e affollato diventa sempre più silenzioso e vuoto tanto che ti chiedi se tu non sia l’unico passeggero. Il paesaggio cambia anch’esso, passando dalle stazioni ultramoderne circondate dai grattacieli di Tokyo, ad antiche rotaie di stazioni sempre più piccole, risaie e torii che spuntano tra la vegetazione delle montagne della prefettura di Chiba.
Il viaggio dura circa 1ora e 45 min e non trattandosi di uno shinkansen in qualche modo si ha tutto il tempo di godersi il cambiamento. Il treno dapprima rumoroso e affollato diventa sempre più silenzioso e vuoto tanto che ti chiedi se tu non sia l’unico passeggero. Il paesaggio cambia anch’esso, passando dalle stazioni ultramoderne circondate dai grattacieli di Tokyo, ad antiche rotaie di stazioni sempre più piccole, risaie e torii che spuntano tra la vegetazione delle montagne della prefettura di Chiba.
Dalla
stazione di Hama-kanaya si raggiunge il monte Nokogiri con una passeggiata di
una decina di minuti (purtroppo non ci sono molte indicazioni e quelle che ci
sono, sono solo in giapponese, per questo
Google Maps è stato un grande alleato!). Lungo la strada il fidato
Google ci ha permesso anche di scoprire un bel santuario.
Giunti ai piedi del monte si hanno due opzioni: o armarsi di coraggio e iniziare la scalata o optare per una ben più comoda funivia (al costo di 500 yen solo andata e 900 yen a/r). Nel nostro caso abbiamo deciso per una via di mezzo. Salire la montagna con la funivia e poi scendere a piedi.
All’ingresso
della funivia ci siamo trovate davanti una fila spropositata di vecchietti
giapponesi arrivati in gruppi con gli autobus.
Se è vero che il posto è sconosciuto ai turisti stranieri lo stesso non si può dire dei giapponesi. Non so se forse sia dipeso dal fatto di essere andate di sabato, in ogni caso ci siamo trovate in coda dietro a così tanta gente che, visto la funivia partiva ogni 15 min, disperavamo di riuscire a salire in meno di 2 ore di attesa.
Se è vero che il posto è sconosciuto ai turisti stranieri lo stesso non si può dire dei giapponesi. Non so se forse sia dipeso dal fatto di essere andate di sabato, in ogni caso ci siamo trovate in coda dietro a così tanta gente che, visto la funivia partiva ogni 15 min, disperavamo di riuscire a salire in meno di 2 ore di attesa.
Ad
un certo punto però, ci siamo rese conto che in
realtà le code erano due. Quella
interminabile era per salire sulla funivia, mentre ce n’era un'altra, molto corta,
per comprare i biglietti.
Con il mio stentatissimo giapponese mi sono precipitata a comprarli e mi sono rimessa in fila, quando mi sono accorta che all’improvviso la coda aveva preso a scorrere in maniera incredibilmente veloce. Non ne ho capito il motivo finchè arrivata quasi all’ingresso della funivia mi sono resa conto che, vista l’enorme affluenza, avevano aumentato il numero delle corse e ora ce n’era una ogni 5 min.
Con il mio stentatissimo giapponese mi sono precipitata a comprarli e mi sono rimessa in fila, quando mi sono accorta che all’improvviso la coda aveva preso a scorrere in maniera incredibilmente veloce. Non ne ho capito il motivo finchè arrivata quasi all’ingresso della funivia mi sono resa conto che, vista l’enorme affluenza, avevano aumentato il numero delle corse e ora ce n’era una ogni 5 min.
La
sola vista dalla funivia mi ha ripagata in parte già dell’attesa.
Continuavamo a risalire avendo la sensazione di volare, eravamo circondate dal cielo, se fosse stato possibile allungare la mano oltre il vetro avrei creduto quasi di poter toccare le nuvole, il sole ci accarezzava il viso e guardando verso il basso avevo come l’impressione di vedere un meraviglioso quadro. Il mare e la montagna si completavano e contrastavano a vicenda, il verde fitto degli alberi aveva uno stacco netto in vista della costa.
Continuavamo a risalire avendo la sensazione di volare, eravamo circondate dal cielo, se fosse stato possibile allungare la mano oltre il vetro avrei creduto quasi di poter toccare le nuvole, il sole ci accarezzava il viso e guardando verso il basso avevo come l’impressione di vedere un meraviglioso quadro. Il mare e la montagna si completavano e contrastavano a vicenda, il verde fitto degli alberi aveva uno stacco netto in vista della costa.
Arrivati
in cima c’era un piccolo osservatorio e delle signore giapponesi ci hanno fatto
notare, che seppur in lontananza, era possibile vedere da lì il monte Fuji. Si sono
offerte di farci una foto ma il risultato è stato davvero sfocato, nonostante
questo la loro simpatia ci ha subito scaldato il cuore.
Abbiamo
iniziato a scalare la montagna per raggiungere il punto più alto e dopo un
percorso un po’ accidentato siamo arrivate finalmente in vista dell’ingresso
del tempio. All’interno dell’area sacra le scale erano più agevoli e semplici
da percorrere ma, nonostante fossimo arrivate in funivia, c’era ancora da
salire per raggiungere il punto più alto.
Abbiamo raggiunto prima un secondo punto panoramico, l’osservatorio Jusshu Ichiran, dal quale si ha una bella vista sul mare e le zone circostanti, poi siamo riscese e risalite di nuovo fino a raggiungere il bassorilievo di Hyaku-shaku Kannon scolpito su un fianco della montagna.
Si tratta di un memoriale in ricordo delle vittime della Seconda Guerra Mondiale. Per scolpirlo sono stati necessari 6 anni (dal 1960 al 1966) e come il nome stesso fa supporre è alto 100 shaku (antica unità di misura giapponese) che corrisponde a 30 metri. Oggi i fedeli vengono a chiedere protezione dagli incidenti stradali e prima di intraprendere un viaggio.
Guardandosi
intorno salta subito all’occhio che la montagna ha una forma un po’ troppo
squadrata, l’intervento dell’uomo è
molto evidente e d’altronde il nome stesso del luogo (la parola nokogiri vuol dire sega) ci
dà un indizio del motivo. Durante il periodo Edo (1603-1868), quando il governo
militare retto dallo shogun Tokugawa Ieyasu si insediò nella città di Edo
(l’attuale Tokyo), vennero avviati importanti lavori di ampliamento del centro
abitato. I giapponesi, trovandosi di fronte a un terreno per lo più paludoso su
cui costruire, usarono il monte Nokogiri come una vera e propria cava, per
rifornirsi di solide rocce da usare per
le fondamenta dei loro edifici.
Continuando
a risalire abbiamo raggiunto infine il punto più alto, l’osservatorio Ruriko. Il
luogo più suggestivo da cui osservare il panorama e scattare foto è sicuramente
Jigoku-nozoki (Il picco del diavolo), uno sperone di roccia a strapiombo sul
vuoto.
L’eccitazione di salirci su ha iniziato a pervaderci già quando lo abbiamo scorto in lontananza, ma arrivati a pochi passi l’eccitazione si è trasformata in panico. Come si fa a salire? E cosa più importante, anche qualora salissimo, come si fa a scendere? Non c’erano scale. Bisognava letteralmente arrampicarsi su sorreggendosi alla ringhiera che lo circondava.
L’eccitazione di salirci su ha iniziato a pervaderci già quando lo abbiamo scorto in lontananza, ma arrivati a pochi passi l’eccitazione si è trasformata in panico. Come si fa a salire? E cosa più importante, anche qualora salissimo, come si fa a scendere? Non c’erano scale. Bisognava letteralmente arrampicarsi su sorreggendosi alla ringhiera che lo circondava.
La
voglia di salire era tanta per cui abbiamo deciso di provarci, se ci riuscivano
le vecchiette potevamo farcela anche noi.
Forse è dipeso dal fatto di non averlo mai fatto prima o di non essere delle persone molto atletiche ma l’arrampicata ci è costata non poca fatica, soprattutto dovendo schivare anche le persone che scendevano aggrappate a quell'unica ringhiera.
Arrivate su ci siamo sentite orgogliose di noi stesse ed entusiaste. La vista era incredibile, avremmo voluto scattare molte foto ma c’era davvero troppa gente e non era facile riuscire a mantenere l’equilibrio su un terreno tanto scosceso, per cui dopo pochi minuti abbiamo deciso di riscendere.
Come previsto la discesa è stata più ardua della salita tanto che a un certo punto mi sono proprio seduta e lasciata scivolare giù.
Contenta di essere, seppur a mio modo, riuscita nell’impresa, mi sono guardata indietro per fissare nella mia mente l’ostacolo superato, con il risultato invece, di schiacciare in modo definitivo la mia autostima alla vista di un salaryman con tanto di valigetta (a chi viene in mente di fare un’escursione in montagna in giacca e cravatta?) che scalava il picco con quattro energici salti e senza il bisogno di aggrapparsi alla ringhiera a cui io avevo affidato completamente la mia vita.
Forse è dipeso dal fatto di non averlo mai fatto prima o di non essere delle persone molto atletiche ma l’arrampicata ci è costata non poca fatica, soprattutto dovendo schivare anche le persone che scendevano aggrappate a quell'unica ringhiera.
Arrivate su ci siamo sentite orgogliose di noi stesse ed entusiaste. La vista era incredibile, avremmo voluto scattare molte foto ma c’era davvero troppa gente e non era facile riuscire a mantenere l’equilibrio su un terreno tanto scosceso, per cui dopo pochi minuti abbiamo deciso di riscendere.
Come previsto la discesa è stata più ardua della salita tanto che a un certo punto mi sono proprio seduta e lasciata scivolare giù.
Contenta di essere, seppur a mio modo, riuscita nell’impresa, mi sono guardata indietro per fissare nella mia mente l’ostacolo superato, con il risultato invece, di schiacciare in modo definitivo la mia autostima alla vista di un salaryman con tanto di valigetta (a chi viene in mente di fare un’escursione in montagna in giacca e cravatta?) che scalava il picco con quattro energici salti e senza il bisogno di aggrapparsi alla ringhiera a cui io avevo affidato completamente la mia vita.
Superato
lo shock, abbiamo proseguito l’esplorazione con la rincuorante sensazione che
da quel momento in poi ci aspettavano solo scale in discesa.
Ci siamo ritrovate completamente immerse nella natura, la vegetazione degli alberi era tanto fitta che quasi il sole faceva fatica a filtrare tra i rami, le radici degli alberi erano a vista, le rocce iniziavano ad assumere una forma meno artificiosa e tra un’insenatura e l’altra iniziavano a comparire le prime statue di Arhats. Erano tantissime, un percorso lunghissimo che si snodava per tutta la montagna.
Abbiamo percorso scale e scale... ancora scale...e io ho cominciato a rendermi conto di far parte di quella ristretta cerchia di persone a cui inizia a girare la testa e vengono le vertigini a scendere le scale e che preferirebbe fare un milione di scale in salita piuttosto che continuare a scenderle.
Ci siamo ritrovate completamente immerse nella natura, la vegetazione degli alberi era tanto fitta che quasi il sole faceva fatica a filtrare tra i rami, le radici degli alberi erano a vista, le rocce iniziavano ad assumere una forma meno artificiosa e tra un’insenatura e l’altra iniziavano a comparire le prime statue di Arhats. Erano tantissime, un percorso lunghissimo che si snodava per tutta la montagna.
Abbiamo percorso scale e scale... ancora scale...e io ho cominciato a rendermi conto di far parte di quella ristretta cerchia di persone a cui inizia a girare la testa e vengono le vertigini a scendere le scale e che preferirebbe fare un milione di scale in salita piuttosto che continuare a scenderle.
La
vista del Daibutsu però mi ha alleviato di tutta la stanchezza. Dal primo
momento che ne ho visto per caso una foto ho
deciso che volevo assolutamente vederlo di persona,
e in quel momento era proprio lì, davanti a me ed era immenso. Più ci avvicinavamo
e più diventava grande, riempiva tutto il nostro campo visivo. Alto 31,05 metri
copriva un intero fianco della montagna, dalla
cui roccia è stato scavato.
Nella stessa piazza si trovavano anche una statua di Jizo, circondata da tante altre piccole statuine chiamate “Onegai jizo”, lasciate lì dai fedeli in cerca di protezione, e l’albero sacro della Bodhi, donato al tempio nel 1989 dal Governo Indiano come simbolo di pace e amicizia tra i Paesi, cresciuto da un ramo dell’albero del tempio Mahabodhi in India, sotto il quale Siddharta Gautama meditò e giunse all’illuminazione.
Dopo aver fatto una pausa nelle comode panchine in legno con tanto di tavolo e tettoia della piazza, circondate da scolaresche in gita munite di cappellini blu, abbiamo continuato la discesa della montagna.
Per prima cosa abbiamo raggiunto due templi veri e propri dall'aria molto moderna o comunque molto ben tenuti. Erano disposti poco distanti l'uno dall'altro e sembrava chiaro che, rispetto all'interesse di cui gode il Buddha, loro non ricevevano molte visite. Uno era aperto per cui abbiamo deciso di gettare un'occhiata all'interno, trovandoci una statuina di Buddha circondata da altre di differenti divinità, con offerte e altri oggetti tipici dei rituali buddisti.
Proseguendo la discesa ci siamo imbattute prima in un piccolissimo santuario e poi in una casa da tè. Siamo state tentate di entrare a mangiare qualche dolcetto ma un signore molto scorbutico ci ha subito cacciato via in malo modo, senza darci neppure il tempo di aprire bocca, indicandoci il sentiero che stavamo percorrendo precedentemente, e dicendoci che l'uscita era da quella parte.
Un po' arrabbiate ce ne siamo andate e dopo numerose altre scale siamo infine giunte ai piedi del monte, dal lato opposto rispetto al quello in cui eravamo arrivate. Ad aspettarci un piccolo tempio di colore rosso dall'aspetto piuttosto malandato.
Passato il portale d’accesso (o d’uscita nel nostro caso) all’area sacra tutto ciò che dovevamo fare, a questo punto, era trovare la strada per raggiungere la stazione di Hota. In realtà la strada è molto ben indicata, seppur solo in giapponese, ma basta imparare i due kanji che compongono il nome della stazione (保田) per riuscire ad orientarsi facilmente.
La stazione di Hota dista una ventina di minuti ma la passeggiata è assolutamente piacevole, in qualche modo mi ha ricordato i paesaggi della Sicilia, i campi coltivati, le rotaie arrugginite e le vecchie staccionate in legno, tutto sembrava un po’ abbandonato a sé stesso come in ogni piccolo paese di campagna.
Abbiamo percorso la strada in perfetta solitudine, sembrava non esserci davvero nessun altro in giro a parte noi, e la situazione è rimasta invariata anche quando abbiamo iniziato a vedere le prime casette del centro abitato e siamo arrivate in stazione.
La stazione era deserta. Non c'era neppure il controllore. All'ingresso dei binari c'erano i tornelli per entrare, ma avendo con noi solo il JRP non sapevamo davvero come fare per arrivare ai binari senza usare il collaudato e comunemente usato metodo italiano di "salta il tornello".
Fortunatamente, in un lampo di genio, ci siamo rese conto di non aver controllato l’orario del prossimo treno, abituate come eravamo a Tokyo dove passava un treno ogni 5 min.
Ebbene il treno successivo era tra un’ora. Ecco spiegato il mistero dietro al fatto che non ci fosse anima viva in giro.
Passato il portale d’accesso (o d’uscita nel nostro caso) all’area sacra tutto ciò che dovevamo fare, a questo punto, era trovare la strada per raggiungere la stazione di Hota. In realtà la strada è molto ben indicata, seppur solo in giapponese, ma basta imparare i due kanji che compongono il nome della stazione (保田) per riuscire ad orientarsi facilmente.
La stazione di Hota dista una ventina di minuti ma la passeggiata è assolutamente piacevole, in qualche modo mi ha ricordato i paesaggi della Sicilia, i campi coltivati, le rotaie arrugginite e le vecchie staccionate in legno, tutto sembrava un po’ abbandonato a sé stesso come in ogni piccolo paese di campagna.
© taichoken93.jugem.jp |
Abbiamo percorso la strada in perfetta solitudine, sembrava non esserci davvero nessun altro in giro a parte noi, e la situazione è rimasta invariata anche quando abbiamo iniziato a vedere le prime casette del centro abitato e siamo arrivate in stazione.
© ccsf.jp |
La stazione era deserta. Non c'era neppure il controllore. All'ingresso dei binari c'erano i tornelli per entrare, ma avendo con noi solo il JRP non sapevamo davvero come fare per arrivare ai binari senza usare il collaudato e comunemente usato metodo italiano di "salta il tornello".
© Soichiro Omura |
Fortunatamente, in un lampo di genio, ci siamo rese conto di non aver controllato l’orario del prossimo treno, abituate come eravamo a Tokyo dove passava un treno ogni 5 min.
Ebbene il treno successivo era tra un’ora. Ecco spiegato il mistero dietro al fatto che non ci fosse anima viva in giro.
Erano
già le 14.00 per cui, visto c’era da aspettare
un’ora, abbiamo deciso di andare a cercare un
posto per pranzare. Impresa ardua considerando che ci trovavamo in un paesino
sperduto, che i ristoranti in Giappone a quell’ora chiudevano e che Google non
riusciva a trovare nessun riferimento per darci una mano.
Non sapendo in che direzione andare non volevamo allontanarci più di tanto dalla stazione, per cui abbiamo deciso di percorrere quella che ci sembrava una delle stradine principali del paesino.
Anche qui non c’era nessuno, abbiamo trovato un ristorante ma come previsto era già chiuso.
La disperazione ha iniziato a farsi sentire ma non abbiamo demorso, anche se si trattava di un piccolo posto ci doveva sicuramente essere almeno un supermercato.
Non sapendo in che direzione andare non volevamo allontanarci più di tanto dalla stazione, per cui abbiamo deciso di percorrere quella che ci sembrava una delle stradine principali del paesino.
Anche qui non c’era nessuno, abbiamo trovato un ristorante ma come previsto era già chiuso.
© taichoken93.jugem.jp |
© Soichiro Omura |
La disperazione ha iniziato a farsi sentire ma non abbiamo demorso, anche se si trattava di un piccolo posto ci doveva sicuramente essere almeno un supermercato.
Abbiamo
continuato a camminare finchè non abbiamo scorto una saracinesca aperta.
All’interno c’era un banco frigo con diversi pesci esposti. Si trattava di una
pescheria. Una ragazza sul retro stava armeggiando con delle casse di pesce e
non si era accorta nemmeno della nostra presenza.
All’inizio sono stata tentata di comprare del pesce, magari avevano del sashimi, ma mi sono accorta che erano tutti pesci interi di piccola-media taglia e il posto non sembrava attrezzato se non per la vendita. Abbiamo deciso che non potevamo mangiare lì, ma visto che almeno avevamo incontrato un essere vivente dopo miglia dovevamo almeno chiedere indicazioni su come trovare un conbini.
All’inizio sono stata tentata di comprare del pesce, magari avevano del sashimi, ma mi sono accorta che erano tutti pesci interi di piccola-media taglia e il posto non sembrava attrezzato se non per la vendita. Abbiamo deciso che non potevamo mangiare lì, ma visto che almeno avevamo incontrato un essere vivente dopo miglia dovevamo almeno chiedere indicazioni su come trovare un conbini.
Ho cercato
di attirare l’attenzione della ragazza con un timido “sumimasen”, lei ha risposto
ma continuava ad armeggiare con il pesce e non si girava, aspettandosi forse
che io facessi la mia ordinazione. Non sapendo davvero come spiegarmi ho
provato di nuovo con un “sumimasen”, sperando che stavolta si voltasse e
capisse solo guardandomi in faccia che non sapevo parlare giapponese.
Si è girata. La sua faccia era palesemente sorpresa e anche un po’ nel panico. Ho chiesto in inglese se potesse indicarmi il conbini più vicino ma chiaramente non capiva nulla di quello che dicevo, così ho riprovato con un più semplice “conbini”.
Finalmente sembrava aver capito, quando si è guardata un attimo intorno quasi spaesata, poi ha iniziato ad urlare come una matta: <<Shacho! Shacho!>>. Giuro che se non avessi saputo cosa quella parola significasse credo mi sarebbe venuto un infarto, pensando che magari ci avesse preso per ladre o delinquenti e cercasse aiuto.
Si è girata. La sua faccia era palesemente sorpresa e anche un po’ nel panico. Ho chiesto in inglese se potesse indicarmi il conbini più vicino ma chiaramente non capiva nulla di quello che dicevo, così ho riprovato con un più semplice “conbini”.
Finalmente sembrava aver capito, quando si è guardata un attimo intorno quasi spaesata, poi ha iniziato ad urlare come una matta: <<Shacho! Shacho!>>. Giuro che se non avessi saputo cosa quella parola significasse credo mi sarebbe venuto un infarto, pensando che magari ci avesse preso per ladre o delinquenti e cercasse aiuto.
In
ogni caso in pochi minuti lo “shacho”, cioè il suo capo, è arrivato. Era un
uomo alto, con gli occhiali e dall’aria davvero gentile e cosa molto più
importante parlava un inglese perfetto.
Gli abbiamo spiegato che eravamo state al
Nihon-ji e che cercavamo un conbini per mangiare qualcosa prima di riprendere
il treno. Lui ha subito controllato gli orari dei treni e poi ci ha spiegato
che il conbini non era lontano ma forse non avremmo fatto in tempo ad andare e
tornare, visto che ormai mancava solo mezz’ora
al prossimo treno.
Gli abbiamo detto che, se avesse potuto spiegarci la strada, avremmo provato a raggiungerlo lo stesso. Lui ci ha detto di aspettare un attimo ed è scomparso nel retrobottega.
Mi aspettavo tornasse con una mappa o con un foglio di carta per indicarci la via da seguire, invece dopo pochi minuti, lo abbiamo visto ricomparire alla guida della sua macchina pronto ad accompagnarci. Mi sono sentita in colpa ma allo stesso tempo estremamente grata. Siamo salite in macchina con un po’ di vergogna per averlo indotto a lasciare le sue occupazioni per aiutarci.
Siamo arrivati al conbini in pochi minuti, al che ci ha detto di ritornare, finiti gli acquisti, perchè ci avrebbe aspettato per accompagnarci in stazione.
Gli abbiamo detto che, se avesse potuto spiegarci la strada, avremmo provato a raggiungerlo lo stesso. Lui ci ha detto di aspettare un attimo ed è scomparso nel retrobottega.
Mi aspettavo tornasse con una mappa o con un foglio di carta per indicarci la via da seguire, invece dopo pochi minuti, lo abbiamo visto ricomparire alla guida della sua macchina pronto ad accompagnarci. Mi sono sentita in colpa ma allo stesso tempo estremamente grata. Siamo salite in macchina con un po’ di vergogna per averlo indotto a lasciare le sue occupazioni per aiutarci.
Siamo arrivati al conbini in pochi minuti, al che ci ha detto di ritornare, finiti gli acquisti, perchè ci avrebbe aspettato per accompagnarci in stazione.
© Japan Travel.com |
Siamo
entrate nel conbini correndo e arrancando velocemente le prime cose che abbiamo
visto da mangiare perché non volevamo far perdere troppo tempo alla persona che
si era presa tanto disturbo per noi. Forse per il modo irruento con cui siamo
entrate o forse perché quella doveva essere la prima volta che vedeva comparire in quel conbini dei visi
chiaramente stranieri, il commesso continuava a fissarci con aria che sembrava
passare dal sospettoso di chi pensa che dei ladri siano entrati per rubare, al
disorientato quando ha capito che eravamo straniere, al terrorizzato quando ci
siamo presentate alla cassa per pagare. Sembrava teso come una corda di violino
e il suo sguardo sembrava implorare “vi prego non parlatemi in inglese perché
non capisco niente”.
Tornate
in macchina il nostro caro “shacho” ci ha riaccompagnate in stazione
chiacchierando amabilmente. Siamo arrivate con 15 min buoni di anticipo sul
treno, così seppur un po’ a malincuore abbiamo detto addio al nostro salvatore
e ci siamo dirette verso la stazione. Avrei tanto voluto chiedergli una foto,
avere un ricordo più tangibile di questo incontro ma non volevo essere
inopportuna, né far perdere altro tempo a qualcuno che ha lasciato il suo
lavoro per aiutare due perfette sconosciute. In ogni caso, anche senza foto,
questo è, e resterà per sempre, uno dei ricordi più belli e indelebili di tutto
il viaggio. Non so se mi capiterà di ritornare in Giappone in futuro, ma
qualora succedesse, voglio assolutamente tornare in quella pescheria per
ringraziare ancora e ancora quella persona tanto gentile.
Al
nostro arrivo la stazione, stavolta, non era deserta. C’erano alcune
vecchiette e con nostra gioia, anche il
controllore. Dopo aver mangiato gli onigiri comprati al conbini, abbiamo infine
passato i tornelli e preso il treno che ci avrebbe portati alla seconda meta
della giornata: Kisarazu.
Per saperne di più sul tempio visitato e sul suo Buddha: Nihonji
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