Giorno 26 parte 1: Koyasan, la soglia verso il mondo degli spiriti


La prima cosa da sapere per chi volesse sperimentare un soggiorno in un monastero buddista è che la sveglia sul Monte Koya suona tutti i giorni alle 5.30. 
Se siete persone che la mattina fanno molta fatica ad alzarsi e che non sopportano le basse temperature questa esperienza potrebbe rivelarsi la più traumatica della vostra vita. 
Quando quella mattina mi sono trascinata fuori dal futon per raggiungere il bagno esterno la camera, è stato come venire pugnalata da mille stalattiti di ghiaccio. Nonostante sembrasse che la stufetta in camera non servisse a un bel niente, lo sbalzo termico tra la camera e il bagno era tale che solo mettere piede fuori dalla stanza era già un'impresa titanica. Figurarsi svegliare mia sorella e convincerla a farlo.


Mentre io ero ancora in fase mistica e mi vedevo a confrontarmi con il freddo come un eremita si confronta con una cascata, lei era in fase lagna e non la smetteva più di lamentarsi per essersi dovuta alzare presto e sopportare ancora quel gelo. 
Ad oggi non saprei dire chi delle due avesse ragione. Se ero io che l'avevo presa con troppa filosofia o lei con troppo poca. Ricordo solo il suo sguardo che mi seguiva perplesso non capendo assolutamente perchè mi piacesse stare lì.
Io invece mi sentivo serena e in pace con il mondo. Tutto era insolito e affascinante e l'idea di apprendere a vivere in un modo diverso da quello a cui ero abituata mi incuriosiva. Era un'oasi di riposo in un mondo sempre in corsa, un posto dove confrontarsi con se stessi ed imparare ad apprezzarsi.


Il primo impegno della giornata di un monaco buddista era la preghiera del mattino che si svolgeva alle 6.30.
Ci siamo recate nella sala apposita per assistere alla cerimonia. Oltre ai monaci c'erano tantissime altre persone. Non ho ben capito se fossero tutti ospiti del monastero o no. 
Davvero tutte quelle persone avevano dormito lì? Il tempio era talmente grande e la nostra camera si trovava in un'ala tamente isolata che non avevamo visto altri ospiti per tutto il giorno precedente, fatta eccezione per quelli incontrati durante la lezione di meditazione.
La sala era buia, illuminata solo dalla luce delle candele e ricolma di oggetti di culto, la maggior parte dei quali, devo ammettere, a me sconosciuti. Seppure li avessi già visti prima, non avevo idea della loro funzione. Un monaco anziano e corpulento (probabilmente il capo abate del tempio) si era posizionato al centro della sala di fronte alla raffigurazione di Buddha, dando le spalle agli astanti.


Altri monaci erano invece seduti ai due lati opposti della stanza, tutti con le gambe incrociate nella stessa scomodissima posizione insegnataci dal monaco carino a meditazione. 
Si vedeva che erano allenati a mantenerla perchè sembravano farlo senza il minimo sforzo. L'avevo assunta per appena 10 minuti il giorno prima e mi era venuto un crampo tremendo.


Il capo abate ha cominciato la preghiera. Parole sconosciute che sembravano quasi uno scioglilingua, ripetute in maniera ritmica, seguendo la cadenza dei colpi che un altro monaco dava sul mokugyo (il tamburo tipico dei rituali buddisti), hanno iniziato a diffondersi per tutta la sala.
Quasi a fine cerimonia è stato permesso ad alcuni dei presenti di avanzare verso l'altare centrale per ricevere la benedizione. La cosa più curiosa è stato vederli avvicinarsi sulle ginocchia e a testa china (eravamo tutti seduti a terra e avevamo lasciato come da consuetudine le ciabatte all'ingresso). A me sarebbe venuto automatico alzarmi per raggiungere l'altare e poi risedermi, ma credo che quel modo di avanzare fosse una forma di rispetto per la divinità che si stava pregando.
Dopo la fine della preghiera, che è durata mezz'ora, abbiamo potuto fare un giro all'interno della stanza per guardare l'altare e il Buddha da vicino, prima di spostarci in un'altra sala dove si sarebbe tenuta la cerimonia del fuoco Goma.



Non sapendo dove andare abbiamo seguito un gruppo di persone presenti, ma vedendoli lasciare il tempio, ci siamo dette che doveva trattarsi di visitatori e che avevamo seguito le persone sbagliate. Come facevamo a trovare la sala adesso? Per fortuna, vedendoci perplesse sulla soglia, un monaco è venuto in nostro aiuto, spiegandoci che, visto c'era troppa gente, la cerimonia del fuoco si sarebbe tenuta in una sala più grande, fuori dal tempio, e che quindi per raggiungerla potevamo seguire quelli che stavano uscendo.

© TripAdvisor
Inforcate le scarpe, abbiamo così infine trovato la fatidica sala, simile ma, a mio avviso, più piccola rispetto a quella dove si era tenuta la preghiera. Anche in questo caso abbiamo lasciato le scarpe all'ingresso e abbiamo trovato posto sedute a terra alle spalle del monaco che era già posizionato a gambe incrociate di fronte ad una pira posta davanti ad una delle tre statue di Buddha presenti nella stanza. In un angolo un altro monaco stava seduto accanto ad un enorme tamburo. La cerimonia ha avuto inizio quando quest'ultimo ha iniziato a colpirlo ritmicamente seguendo la cantilena intonata dall'altro monaco.


Visto non capivo assolutamente nulla di ciò che veniva detto, la litania intonata mi è sembrata molto simile a quella già sentita durante la preghiera mattutina, la sola differenza consistente tra le due cerimonie è stata l'accensione della pira da parte del monaco e il dono delle offerte al fuoco.

L'accensione della pira

I nostri sutra che vengono bruciati

Da quello che ho capito questa cerimonia aveva lo scopo di concentrare le proprie energie in un unico punto (il fuoco) al fine di raggiungere i propri obiettivi e realizzare i propri desideri. 
Proprio per questo durante la cerimonia venivano bruciati come offerta i sutra trascritti dagli ospiti del tempio (tra cui anche i nostri) e se avete letto il post precedente sapete bene quanta energia e impegno ci era costata la trascrizione. 
Sapere che quello sforzo comune serviva ad alimentare anche i nostri di sogni è stato molto bello e ci ha fatto sentire parte integrante ed attiva della cerimonia.



Spentosi anche l'ultimo legnetto che alimentava la pira la cerimonia è finita, per cui siamo tornate nelle nostre stanze, dove l'apprendista timido del giorno prima ci aveva già lasciato la colazione. Tè verde, riso bianco, zuppa, verdurine varie e umeboshi (prugna secca). Abbiamo mangiato con gusto nonostante fossero solo le 7.30. Visto eravamo sveglie dalle 5.30 quello per noi era quasi un pranzo più che una colazione, per cui mangiare riso e verdure non è stato strano più di tanto.


Assieme all'ultimo boccone ho inghiottito anche un po' di tristezza, il soggiorno nel monastero era finito, presto avremmo fatto il check out e io avrei dovuto dire addio ad un posto che mi aveva fatto sentire davvero bene con me stessa. Le mie possibilità di ritornare, quanto di sposare il monaco carino, erano pari alla quantità di grassi nello yogurt magro: 0,1 %, ma in fondo andava bene così. Se fosse durato più a lungo forse non sarebbe stato così speciale.
Zaino in spalla, siamo partite verso l'ultima meta della giornata, prima di lasciare definitivamente il Koyasan, l'Okunoin, il cimitero buddista più grande di tutto il Giappone.



Leggenda vuole che in questo luogo non ci siano morti ma oltre 200.000 anime in attesa che Miroku Nyorai, il Buddha del futuro, scenda sulla Terra a ridestare Kukai, fondatore del buddismo shingon, dalla sua eterna meditazione. Il mausoleo di quest'ultimo è difatti il luogo più importante e sacro di tutto il cimitero.
All'Okunoin si accede attraverso il ponte Ichi no Hashi, spartiacque tra il mondo terreno e quello spirituale. Oltre questo ponte si ha accesso a un paesaggio bloccato nel tempo e quasi ultraterreno. Altissimi cedri facevano da sfondo e da cornice alle tombe. Un sentiero lastricato fiancheggiato da lanterne in pietra partiva dal ponte per inoltrarsi nel fitto del bosco.


Lo abbiamo percorso lentamente passando da tombe più moderne in granito ad altre antichissime totalmente ricoperte di muschio e ormai quasi tutt'uno con la vegetazione circostante.
Antichi gorinto (stupa a cinque anelli) si elevavano tra una sepoltura e l'altra, mentre i Jizo indossavano bavette rosse e colorati cappelli, i più grandi addirittura vestitini.


I cinque anelli dei gorinto rappresentano i 5 elementi: terra, acqua, fuoco, aria ed energia del vuoto


Lungo il cammino ci siamo imbattute in un piccolo santuario, dimora di Asekaki Jizo (Jizo del sudore). Questa statua di pietra nera sembra farsi carico di chi soffre a causa dei propri errori e per questo sembra sempre umida, come se sudasse a causa dello sforzo.
Proprio lì accanto si trovava anche il Sugatami no Ido, il  pozzo del riflesso. Secondo la leggenda chiunque vi guardi all'interno senza vedere riflessa la propria immagine è destinato a morire nell'arco di tre anni.


Quasi per gioco ho deciso di guardarci dentro anch'io, rimanendo di sasso nel non vedere il mio riflesso sulla superficie dell'acqua. Com'era possibile? Mi sono sporta ancora, e ancora di più, quasi a finirci dentro, e infine con sommo sollievo il mio riflesso ha fatto la sua comparsa.
Era forse l'ennesima lezione buddista? Quel pozzo sembrava stare lì come un monito: se non vai fino in fondo e non rischi nella vita, è come essere già morto.


Abbiamo proseguito più sicure di noi e consapevoli lungo tutto il percorso, accompagnate da varie statue poste a protezione delle sepolture, fino a raggiungere il Gobyo no Hashi, il ponte oltre il quale non era più possibile scattare foto. Esso divideva il resto del cimitero dal luogo di meditazione di Kobo Daishi.




Alla soglia si trovavano allineate varie statue di Mizumuke Jizo (Jizo coperti d'acqua), così chiamate perchè venivano bagnate dai fedeli che gli tiravano l'acqua durante la preghiera per i loro morti. Ci siamo fermate per una preghiera anche noi decidendo di rinfrescare una statua che sembrava ancora asciutta. Una fatica immane per niente. Era talmente alta che era impossibile ricoprirla d'acqua. Il getto precipitava prima ancora di raggiungerla. Ce la siamo lasciata alle spalle sperando che qualcuno più alto di noi riuscisse più tardi nell'impresa.



Oltre il Gobyo no Hashi si respirava un'aria di assoluta sacralità. Non un vocio o uno scatto di macchina fotografica a disturbare quella pace eterna.
Ci siamo avvicinate al piccolo edificio in legno che custodiva la pietra di Miroku. L'esercizio era quello di infilare una mano attraverso le grate e riuscire a spostare la pietra dallo scaffale più basso a quello più alto. Si dice essa sia in grado di soppesare i peccati di ogni persona, per cui ai cattivi essa risulterà più pesante che ai buoni.

© Kanazawa phonograph museum
Eravamo decise a sottoporci a quest'esame di coscienza ma la lunga fila per afferrarla ci ha infine fatto desistere.
Ci siamo invece spinte all'interno del Torodo, la sala delle lanterne, fino ad arrivare in vista del mausoleo di Kukai che eterno ed incrollabile continua tutt'ora la sua meditazione all'interno di uno spazio davvero esiguo.

© Miquel Llexia Mora
Vedere così tante persone sinceramente devote, rivolgergli le loro preghiere è stato in qualche modo emozionante. Da quanto tempo non mi capitava di vedere occhi così limpidi e mani così strette in onesta supplica? Per una come me che ha smesso di credere in molte cose ritrovarsi davanti tanta fiducia e devozione faceva quasi male al cuore. Avrei trovato anch'io, prima o poi, qualcuno o qualcosa a cui affidarmi ciecamente?

©thewholeworldisaplayground
Siamo tornate indietro attraverso il cimitero fino a raggiungere nuovamente l'Ichi no Hashi. Oltrepassato nuovamente il confine e rientrate nel mondo terreno ci siamo sentite in dovere di fare le turiste alla ricerca di souvenir. Ne ha guadagnato un negozietto dal quale abbiamo acquistato, pensate un po', dei sottaceti. Ad ogni pasto continuavamo a stupirci di quanto fossero buoni i sottaceti in Giappone, tanto che abbiamo finito per acquistarne un pacco per farli assaggiare anche a casa in Italia.
 
Koya-kun, la mascotte del Koyasan, davanti a un negozio di souvenir © ChasingTheUnknown
Preso l'autobus ci siamo dirette infine verso la stazione sperando di arrivare in tempo per prendere la corsa successiva della funivia, ma conoscendo la nostra eterna sfiga potete ben immaginare come è andata a finire.
Ci è toccato aspettare un'ora e mezzo la corsa successiva, al freddo e al gelo, senza niente da fare e con lo stomaco che brontolava dalla fame. A pensarci bene potevamo fermarci a pranzo prima di prendere l'autobus ma la pessima esperienza del giorno prima e la poca voglia di aspettare due ore per l'autobus successivo ci ha infine portati a quella decisione.


Ovviamente in stazione non c'era assolutamente nessun punto ristoro e l'unica macchinetta presente vendeva gelati. Ovvio, quale alimento più adatto a quella stagione!
Vi dirò che la fame era tanta e tale che abbiamo finito per comprare due coni, con il risultato di congelarci dalla punta della lingua fino a quella dei capelli.
Saremmo morte assiderate? Almeno lo avremmo fatto godendoci la migliore vista di sempre.




Se solo non avesse fatto così freddo sarei stata quasi dispiaciuta al risuonare dell'altoparlante che annunciava l'arrivo della funivia. Dopo tanto congelarsi finalmente si tornava ad Osaka.

Continua con la seconda parte.

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Per i post precedenti sul Koyasan:
Koyasan parte 1
Koyasan parte 2

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