Giorno 7: Tokyo, file e folla


La domenica in Giappone è la giornata ufficiale della fila. Qualunque posto si decida di visitare a Tokyo troverete una calca impressionante di persone che procedono a passo di formica e metropolitane intasate che vi faranno sospettare di avere poteri gravitazionali perché riuscirete ad uscire da lì senza fare un passo, semplicemente sospinti dal muoversi della folla.
Quindi in quali quartieri pensate io abbia deciso di passare la mia prima domenica in Giappone? Ovviamente ad Harajuku e Shibuya, due quartieri che sono sempre affollatissimi, peggio ancora di domenica.
Il motivo? Mi ero messa in testa che volevo andare a vedere i Rockabilly al parco Yoyogi e visto avevo letto che era possibile vederli solo la domenica avevo programmato la visita per quel giorno. Gravissimo errore. In primo luogo perché i Rockabilly non li ho mica visti (probabilmente a causa del fatto che non abbiamo avuto il tempo di girare tutto il parco) e poi perché lo stress della calca mi ha portato vari attacchi di nervi distribuiti durante tutta la giornata. Ma andiamo con ordine.
Siamo uscite dall’hotel dopo le 10.00 e siamo andate a prendere il treno. Dalla stazione di Akihabara si arriva in una 20ina di minuti prendendo la JR Chuo line fino a Yoyogi e poi cambiando con la Yamanote line fino ad Harajuku. Se non volete cambiare treno potete prendere direttamente la Yamanote line dalla stazione di Akihabara o di Tokyo, ma il tempo di percorrenza è un po’ più lungo.
Uscite dalla stazione ci siamo ritrovate immediatamente davanti Takeshita dori, la via dello shopping e delle mode giovanili di Harajuku, con il suo caratteristico arco d’ingresso con una decorazione di palloncini che cambia di volta in volta, nel nostro caso una Sirena e due pesci pagliaccio. Già dall’altro lato della strada si vedeva come strabordasse di persone per cui abbiamo deciso di iniziare la visita dal santuario Meiji Jingu.


Il santuario si trova all’interno del parco Yoyogi, di fronte a Takeshita dori. Lo individuerete subito grazie al suo enorme torii d’ingresso in legno immerso tra gli alberi.


Oltre il torii si è aperto alla nostra vista un enorme viale, visi orientali e occidentali si alternavano. Il mio sguardo è stato subito catturato da una madre con le sue due bambine che indossavano coloratissimi kimono. Nonostante lo Shichi-go-san sia il 15 di novembre per tutto il mese ci è capitato di incontrare bambini vestiti di tutto punto con abiti tradizionali che accompagnati dai genitori facevano visita ai santuari. La cosa davvero carina in questo caso era che le bambine erano si in kimono e perfettamente accorciate, ma poi ai piedi avevano le scarpe da ginnastica.


Proseguendo lungo il viale siamo giunte ad una parete fatta di barili di sakè impilati l’uno sull’altro, pieni di disegni colorati e scritte a noi incomprensibili. A quanto pare si trattava di donazioni fatte dalla Meiji Jingu Zenkoku Shuzo Keinshinkai, l’Associazione Nazionale Fabbriche di Sakè, al fine di mostrare il proprio rispetto verso le anime dell’Imperatore Meiji e dell’Imperatrice Shoken, venerate nel santuario come divinità, in quanto durante il periodo del loro governo in Giappone, favorirono la crescita industriale e incoraggiarono lo sviluppo tecnologico e la modernizzazione del Paese.


Superati altri due torii siamo arrivate ad un bel chozuya in pietra, legno e bamboo. In qualche modo ci siamo sentite in dovere di seguire il rituale insegnatoci da Yumi prima di accedere all’area sacra, per cui una volta bagnate mani e bocca ci siamo inoltrate nell’area principale del santuario.



A differenza di altri santuari visitati precedentemente, dove per vedere un negi dovevi rincorrerlo, il Meiji Jingu brulicava di sacerdoti shintoisti che correvano a destra e a manca in chissà quali faccende affaccendati.
Uno di loro, dotato addirittura di microfono, richiamava a gran voce i fedeli verso lo stand di cui era evidentemente a capo, per poi letteralmente volare verso il lato opposto a raccogliere le piastre di rame firmate da coloro che avevano contribuito con le loro donazioni al rinnovo del tetto del padiglione principale del santuario, in occasione del suo 100esimo anniversario, che sarà esattamente nello stesso anno in cui si terranno le Olimpiadi a Tokyo, nel 2020.



Superato l’imponente portale in legno siamo infine giunte al padiglione principale.


La gente si accalcava all’ingresso per vedere i sacerdoti intenti in non so quale tipo di rituale, ma probabilmente qualcosa sempre legato allo Shichi-go-san, visto solo le famiglie con bambini potevano andare all’interno. Uno dei sacerdoti, vestito di bianco, indossava un copricapo nero oblungo e teneva in mano un bastone su cui erano appesi dei ritagli di carta.



Su entrambi i lati del padiglione si trovavano dei frondosi e alti alberi verdi legati a due a due dagli shimenawa, e attorno ad uno di essi era costruita una grossa struttura in legno che ospitava tantissimi ema carichi di desideri.



Sono rimasta incantata dalla modo in cui il vento cullava le fronde degli alberi e passava tra le tavolette in legno, che sbattendo tra loro creavano una melodia dolce e rilassante. Sembrava davvero come se gli dèi fossero lì, in quel vento, a leggere i desideri della gente.


Sembrava davvero un momento troppo mistico e propizio per non tentare anche noi di lasciare un messaggio alle divinità, per cui, muniteci delle nostre migliori capacità di sintesi, al fine di concentrare tutte le nostre aspirazioni e speranze  in una tavoletta di pochi centimetri, abbiamo comprato il nostro ema e abbiamo iniziato a scrivere, per poi appenderlo nel posto più in vista possibile. Non sia mai che agli dèi sfugga la nostra richiesta.



Terminata la visita del santuario siamo andate alla ricerca di un posto dove mangiare. Alla fine ci siamo decise per un ristorante di gyoza (ravioli cinesi) di cui avevamo letto buone recensioni. E lì è cominciato il calvario. Fuori dal ristorante c’era una fila inverosimile. Sono stata tentatissima di scappare e cercare un altro posto, ma ovunque guardassi c’erano solo ristoranti con file kilometriche, per cui mi sono rassegnata e sono rimasta in coda al mio posto. Dopo tipo 1 ora e mezza siamo finalmente riuscite ad entrare. Il menù era composto da praticamente solo 2 piatti: ravioli al vapore e ravioli alla piastra. Dopo aver atteso un’altra mezz’ora siamo finalmente riuscite ad ordinare. Abbiamo preso una porzione al vapore e due alla piastra.


I ravioli erano buoni, niente da dire, ma da qui a fare 2 ore di fila per rimanere sostanzialmente affamate ce ne passa. Potevamo prenderne un’altra porzione, ma non eravamo certe di quanto tempo ci sarebbe voluto perché fosse pronta, per cui abbiamo preferito lasciare il locale e optare per andare a prenderci una bella crepe.
Sulla strada però ci siamo imbattute in un negozio di 5 piani di Kiddyland, per cui non abbiamo potuto fare a meno di farci almeno un giro. L’emozione iniziale è andata un po’ scemando quando ho visto che anche qui erano davvero pochi i personaggi di anime o film che conoscevo. Ciò non toglie che Kiddyland va comunque visitato, fosse anche solo per ritrovarsi faccia a faccia con Darth Vader che va in giro con il trolley di Star Wars.


Attraversato il cavalcavia ci siamo dirette verso Takeshita dori.


Eravamo già pronte ad attraversare la strada alla vista di negozi di moda e cartelloni pubblicitari con gli idol del momento ( tra cui uno degli Arashi che pubblicizzavano la birra Kirin) quando ci siamo accorte di un’immenso Brown dietro una vetrina.


Per chi non lo sapesse Brown è una delle mascotte, insieme a Cony, dell’app LINE, diffusissima in Giappone molto più di Whatsupp.
All’ingresso del negozio poi c’era anche un cestino con dei cartellini da poter utilizzare come balloons, per cui almeno una foto dovevamo farla per forza, nonostante ci vergognassimo  un po’ visto nessun altro lo stava facendo. Neanche a dirlo nel giro di pochi minuti si è formata la fila per fotografarsi con l’orso. Meno male che almeno una volta siamo arrivate per prime.


Giunte finalmente all’entrata di Takeshita dori (o meglio all’uscita, perché se non entriamo sempre dall’uscita non ci sentiamo soddisfatte) ci siamo dirette verso la prima bancarella di crepes che abbiamo trovato. Che vendessero crepes lo abbiamo capito dall’insegna perché davanti c’era una fila senza fine che non permetteva neppure di vedere se fossimo nel posto giusto.


Sempre più rassegnate ci siamo messe in coda. Tutto sommato devo dire che per quanto la coda fosse lunga scorreva abbastanza velocemente. Dopo solo (si fa per dire) mezz’ora eravamo già abbastanza vicine da poter vedere le raffigurazioni in plastica.


La peggiore delusione della mia vita. A parte le crepes salate che non erano nemmeno da tenere in considerazione, ma vi pare che il 90% delle crepes fossero ripiene di panna montata?  Io non mangio la panna, è uno di quei pochi alimenti che non riesco proprio a ingerire, mi dà immediatamente la nausea. Per i miei compleanni mia madre preparava sempre due torte, una con la panna per i miei amici e una per me con la ricotta. Ed è inutile dirmi che la panna giapponese è diversa dalla nostra, nessuno mi convincerà mai a ingerire un dolce con la panna nella mia vita.
Fatto sta che l’ampia scelta di crepes si è drasticamente ridotta, per cui ci siamo accordate sul fatto di prenderne solo una da dividere, più un frappè al matcha e oreo che ho assaggiato solo dopo che mia sorella aveva finito di mangiarsi tutta la panna che c’era sopra.
Ho fatto la mia ordinazione al grido di: " N. 82 vieni a me!", e mi sono messa in attesa della mia crepe.

 

Mi aspettavo che dentro ci fosse un pezzo di torta al cioccolato grande almeno quanto quello nella raffigurazione in plastica, invece era solo un quadratino appoggiato sulla crepe e nemmeno molto buono. In compenso la crema pasticcera era davvero squisita, e lo dice una che di solito non la ama molto.


Finito di mangiare ci siamo finalmente immesse nella via dello shopping più famosa del Giappone, o almeno ci abbiamo provato. La strada era così piena di gente che sembrava di essere in un vagone della metro all’ora di punta. Impossibile camminare, figurarsi superare. Ci siamo infilate nel primo negozio di vestiti che abbiamo trovato. C’erano dei maglioncini e delle gonne adorabili e dei prezzi non male ma capire quale fosse la taglia è stato impossibile. Non che pensassi di trovare qualcosa della mia misura, non scherziamo, ma almeno mia sorella poteva tentare. Ha provato una gonna che su un manichino sembrava stupenda e nonostante la misura fosse quella giusta, le cadeva in modo strano. Era chiaro che quei vestiti fossero pensati per corpi bidimensionali.
Siamo passate poi da Etude House a comprare delle maschere per i punti neri e per le occhiaie e poi da Liz Lisa a guardare i vestiti. Io adoro questo brand. Non ci comprerei mai niente perché i prezzi sono alti e mi sentirei un’idiota ad andare in giro vestita in quel modo, ma nonostante ciò adoro quello stile tutto pizzi, merletti e fiocchi.
Abbiamo poi fatto un giro al Daiso, un negozio simile a i nostri “Tutto a 0,99 cent”. C’erano ben 5 piani di roba. Ho girato come una trottola su e giù più volte, ma alla fine ho trovato i cutter per tagliare le verdure che agognavo da una vita.
Tra le tante insegne color pastello dei negozi una in particolare ha attirato la nostra attenzione. La scritta Purikura campeggiava su uno sfondo rosa. Non potevamo non entrare.


Ero già rassegnata a fare almeno un’ora di fila per fare la benedetta foto quando abbiamo scorto una macchinetta libera. Ho praticamente spinto mia sorella dentro per occuparla mentre finivo di cambiare i soldi.


Abbiamo fatto del nostro meglio per fare le pose più sceme ci venissero in mente ma quell’aggeggio infernale ti mette una fretta assurda, non ho avuto nemmeno il tempo di togliermi la giacca. Non capivo niente di quello che mi dicesse di fare e anche la decorazione delle foto è stata un’impresa, siamo andate molto a caso. Ho provato anche a spedirmi le foto per mail ma non ho finito di scrivere il mio indirizzo che già era terminato il tempo.
Il risultato finale è stato abbastanza esilarante, per non dire inquetante. Sembravano caricature non foto. Quei filtri che stanno così bene sui visi orientali su di noi erano solo ridicoli. Sembravamo due con le facce piene di botox.


Lasciata Harajuku verso le 16.30 ci siamo dirette verso Shibuya. Prendendo la JR Yamanote line è a una sola fermata di distanza, ma se vi va di camminare, da Harajuku si ci arriva tranquillamente in 20 min.


Ci sono 2 cose a Shibuya che chi visita il Giappone per la prima volta deve assolutamente andare a vedere: la statua di Hachiko e lo Shibuya crossing.
Hachiko era un cane bianco di razza Akita. Il suo padrone Hidesaburo Ueno era professore all’Università Imperiale di Tokyo, ma abitava a Shibuya, per cui era costretto a fare il pendolare per recarsi a lavoro. Ogni giorno Hachiko lo accompagnava a prendere il treno e poi tornava ad aspettarlo in stazione alle 17.00, orario del suo rientro. Il 21 maggio del 1925 però il professore non fece ritorno, colpito da un ictus mentre era a lavoro. Il cane si presentò come suo solito in stazione, ma non vedendo arrivare il padrone lo aspettò e tornò anche nei giorni successivi.
Pian piano che passò il tempo le persone che prendevano frequentemente il treno alla stazione di Shibuya si accorsero di lui e la sua storia divenne talmente famosa che la gente visitava il quartiere solo per vederlo.
Nel 1934 lo scultore Teru Ando realizzò una statua con le sembianze del cane, divenuto ormai simbolo di fedeltà e affetto, da porre a uno degli ingressi della stazione di Shibuya.
Hachiko morì l’8 marzo del 1935 di filariasi, dopo essere tornato tutti i giorni ad aspettare il padrone invano per la bellezza di 10 anni di fila. Il suo corpo fu conservato tramite tassidermia ed esposto al Museo Nazionale di Natura e Scienze, mentre parte delle sue ossa furono sepolte ad Aoyama, accanto alla tomba del professor Ueno.
Durante la Seconda Guerra Mondiale la statua di Hachiko fu fusa a causa dell’ingente necessità di metalli per contribuire allo sforzo bellico,  ma una volta finita la guerra, nel 1948 fu commissionata una nuova statua al figlio di Teru Ando, Takeshi, da porre nello stesso luogo in cui si trovava la precedente.
Quando siamo arrivate la statua era completamente circondata da un tumulto di persone che si succedevano per scattarsi foto con essa. O almeno questo pensavamo. In realtà, una volta avvicinateci abbastanza da vedere la statua, ci siamo accorte che la gente si ammassava attorno ad essa per un motivo diverso. Accoccolato tra le zampe di Hachiko e poggiato su una sciarpa blu e bianca difatti, si trovava  un gattone languido con al collo, una sorta di collare, fatto con un elastico per capelli rosa. Le persone si avvicendavano intenerite per accarezzarlo. Il micio aveva calamitato tutta l’attenzione di solito rivolta al cane. Mi sono quasi sentita dispiaciuta per Hachiko, e anche per il povero gatto che chiaramente qualcuno aveva piazzato lì al freddo e al gelo solo per fare scena.


Ho letto poi che sono già vari anni che il gatto staziona tra le zampe del cane e per quanto la cosa possa sembrare tenera, perché idealmente Hachiko non è più solo ad aspettare il suo padrone ma ha trovato un amico che gli fa compagnia, è evidente che quel gatto non è un randagio, visto il pelo molto curato e come era agghindato, per cui mi chiedo se davvero questa sia un’abitudine che il felino ha preso da sé o se tutti i giorni il padrone lo mette lì apposta.
Dopo la foto di rito ci siamo dirette verso l’incrocio di Shibuya, il più trafficato al mondo a quanto pare. Ritrovarsi ad attraversare insieme a migliaia di persone che si muovono tutte in direzioni diverse è una sensazione stranissima. È come essere tra gli spettatori di un concerto affollato, ma questi invece di star fermi o saltare sul posto, iniziano a muoversi in tutte le direzioni, e tu stesso sai che devi muoverti, ma lo fai quasi a rilento, terrorizzato che ti vengano tutti addosso.


Se poi mentre attraversi tenti di girare anche un video è pure peggio perché dovendo guardare edentro l’obiettivo non riesci ad avere una percezione chiara di cosa hai attorno e quindi dove mettere i piedi. Vi dico solo che abbiamo attraversato l’incrocio con mia sorella che non la smetteva di sghignazzare, mentre filmava, perchè non capiva dove andare e io che guardavo la strada, spingendola verso la direzione giusta. Se volete farvi un’idea della sensazione vi lascio il video qui sotto.


Giunte “in salvo” (come dice mia sorella nel video) dall’altro lato della strada, siamo entrate da Starbucks nella speranza di riuscire a fare qualche ripresa dell’incrocio dall’alto.
La porta di accesso si apriva su due ambienti, a destra c’era Starbucks e a sinistra un negozio di musica. Per entrare da Starbucks bisognava prima passare dalla cassa a comprare qualcosa altrimenti non era possibile accedere ai tavoli. Essendo ancora piene non ci andava per niente di comprare qualcosa e poi alla cassa c’era una fila sterminata di persone, ma per la voglia di poter vedere l’incrocio dall’alto ci siamo messe in coda. Eravamo lì da pochi minuti quando una musica familiare proveniente dal negozio accanto ha attirato la nostra attenzione. “Don’t you get it” degli Arashi. Di nuovo. Ci siamo guardate in faccia e abbiamo capito che non ce ne fregava niente dello Shibuya crossing, volevamo entrare nel negozio di musica.
La melodia veniva da un televisore che stava trasmettendo il videoclip della canzone e sotto di esso c’era un pannello che pubblicizzava il nuovo disco e dei loro vecchi album. Non riuscivamo a crederci.


Esaltate come non mai ci siamo messe alla ricerca del nuovo disco ( visto i vecchi album li avevamo già) all’interno del negozio. Perché non portarselo a casa come ricordo del viaggio?
Come no, ovviamente era tutto esaurito. Ci siamo consolate ascoltandolo dalla Top ranking degli album più venduti dove, neanche a dirlo, erano al primo posto.


Facendo un giro del negozio abbiamo poi trovato altre piccole chicche che avremmo voluto portarci a casa. I dvd dei concerti dei One Ok Rock e dei Radwimps. E qui si è aperto il dibattito. Prenderne uno di entrambi i gruppi era fuori discussione, troppo cari. Ma come si fa a scegliere tra Radwimps e One ok rock?


Semplicemente non si può, per cui li abbiamo lasciati, a malincuore, entrambi in negozio.
Mentre ci dirigevamo al primo piano (il negozio era su due livelli), nell’etere è iniziata a risuonare un’altra canzone dal nuovo album degli Arashi “Ai wo sakebe” e ci siamo sentite in dovere di filmare il momento. La metto qui per farvela sentire sperando youtube non mi azzeri l’audio per violazione del copyright.


Saremmo rimaste in quel negozio tutta la sera ma non ci è sembrato il caso. Dopo aver finito anche il giro del primo piano ci stavamo preparando ad uscire quando ci siamo accorte che, esattamente come al piano terra, anche il primo piano era diviso in due parti, e dal lato opposto al negozio di musica c’era il primo piano di Starbucks, ma qui non c’era nessuna cassa per le ordinazioni a separarci dalla vista sul quartiere.
Ci siamo fiondate dentro per immortalare il momento esatto in cui, allo scattare del verde, la folla di persone attraversava l’incrocio. Sembrava di star guardando tante formiche che frettolosamente scappavano in tutte le direzioni. Eppure tra quelle formiche c’eravamo anche noi fino a poco prima.




Uscite dalla caffetteria abbiamo poi fatto un giro del quartiere e di alcuni negozi tra cui il famoso 109 per poi dirigerci finalmente a cena.




Abbiamo optato per un kaiten sushi e anche qui c’era tantissima fila. Ormai rassegnate ci siamo appuntate sulla lista d’attesa del ristorante e abbiamo aspettato il nostro turno. Dopo un’ora siamo finalmente riuscite ad entrare.
I kaiten sushi sono quei ristoranti dove il sushi viene servito in dei piattini di diverso colore tramite un nastro trasportatore. Ad ogni colore del piatto corrisponde un diverso prezzo. Questi ristoranti sono ormai di moda anche in Italia, ma ciò che li differenzia dai kaiten nostrani è che qui c’è la possibilità di ordinare tramite tablet e la vostra ordinazione vi arriverà tramite un carrellino direttamente sulla parte di nastro di fronte a voi.


Ci siamo sedute, ci siamo preparate il tè (che era gratuito come in tutti i ristoranti giapponesi), e abbiamo iniziato a ordinare, calcolatrice alla mano, per evitare di eccedere nella spesa senza rendercene conto. Per fortuna sul tablet si poteva selezionare anche la lingua inglese.
La prima cosa che ho notato è che le porzioni di sushi non erano neanche paragonabili a quelle che troviamo in Italia. Erano grandi almeno il doppio e coperte da una striscia di pesce che nascondeva completamente il riso, tanto era lunga. C’era poi una grandissima varietà di scelta, altro che solo salmone, come nella maggior parte dei ristoranti in Italia.


Abbiamo provato vari tipi di pesce, alcuni non abbiamo capito bene nemmeno cosa fossero, ma ci è piaciuto tutto e con circa 15 euro totali da dividere in due, siamo uscite da lì belle piene.
Eravamo abbastanza stanche per la giornata interminabile di file ma abbiamo deciso di non tornare subito in hotel perché c’era ancora un posto che volevamo vedere.
Avremmo dovuto andarci il giorno in cui eravamo state a Mitaka, ma la visita al Museo Ghibli ci aveva stremate, per cui lo avevamo già rimandato. Rimandarlo di nuovo avrebbe significato probabilmente non andarci affatto, quello difatti era il nostro penultimo giorno dedicato alla visita di Tokyo, per cui ci siamo fatte forza e siamo partite alla volta di Roppongi.
Ci sono vari modi per arrivare a Roppongi da Shibuya. Noi abbiamo preso la Jr Yamanote line fino ad Ebisu e poi abbiamo cambiato con la Tokyo Metro Hibiya line fino a Roppongi.
Ciò che ci interessava vedere del quartiere era sostanzialmente Roppongi Hills. Questa è una zona di grattacieli che si sviluppano attorno ad una piazza nella quale si trova il gigantesco ragno della scultrice Louise Bourgeois.


Ho desiderato vedere questo posto da quando ho visto il ragno la prima volta nel drama giapponese “Bambino” con Matsujun degli Arashi.
In qualche modo gli Arashi c’entrano sempre. O meglio in realtà è stato il contrario. È forse proprio a causa di questo ragno se io e mia sorella abbiamo iniziato a seguire questo gruppo.
Avevo iniziato questo drama perché ero incuriosita dal titolo in italiano e dal fatto che si trattasse di un ragazzo che voleva diventare chef di un ristorante di cucina italiana. La storia non mi aveva preso molto all’inizio ma quando ho visto il protagonista uscire dalla metro e ritrovarsi davanti il ragno gigante, non sono riuscita a interrompere la visione, curiosa di carpire informazioni su dove il ragno effettivamente si trovasse, per metterlo tra le cose da andare a vedere in Giappone. Questo succedeva circa 5 anni prima dell’effettiva partenza per il mio viaggio (lo so non sono normale).
Fatto sta che alla fine mi sono appassionata al drama e ho finito con il vederlo tutto e soprattutto con il farmi ossessionare dalla sigla, che ho scoperto essere cantata dagli Arashi solo quando Matsujun, alla fine di un episodio, ha invitato gli spettatori a comprare il loro CD mostrandolo su un piatto da portata.
Il passo successivo è stato andare a cercare la canzone e il gruppo che la cantava. Mi sono ritrovata davanti un videoclip così osceno e un gruppo di ragazzi che ballavano talmente scoordinati tra loro che non ho potuto fare a meno di condividere la scoperta con mia sorella, per cui abbiamo iniziato a vedere insieme tutti videoclip delle loro canzoni senza riuscire a smettere di ridere. Da lì ad imparare i testi a memoria e cominciare ad amarli il passo è stato breve.
Galeotto fu il ragno dunque, per cui ci tenevamo ad andare a vederlo.
Roppongi Hills di sera lascia abbastanza sbalorditi. Il ragno gigante, sul cui sfondo si stagliava l’altissimo grattacielo ricoperto di luci della piazza, era molto più monumentale di quello che ci aspettavamo e anche più spaventoso.


Alla sinistra del grattacielo si trovava la sede della tv Asahi, il canale che trasmette Doraemon. Ci sarebbe piaciuto visitarla ma siamo arrivate troppo tardi per cui era già chiusa.


Ma la cosa che indubbiamente ci ha più colpite di Roppongi è stata l’incredibile vista che si aveva dalla piazza sulla Tokyo Tower. La torre svettava rossa e altissima sulla città illuminando come un faro il buio della notte.


Siamo tornate in hotel distrutte ma con ancora negli occhi quel meraviglioso spettacolo.

Se volete  saperne di più sui luoghi visitati vi invito a leggere gli approfondimenti:
Meiji Jingu
Tokyo Tower






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