Giorno 7: Tokyo, file e folla
La domenica in Giappone è la giornata ufficiale della fila. Qualunque posto si decida di visitare a Tokyo troverete una calca impressionante di persone che procedono a passo di formica e metropolitane intasate che vi faranno sospettare di avere poteri gravitazionali perché riuscirete ad uscire da lì senza fare un passo, semplicemente sospinti dal muoversi della folla.
Quindi
in quali quartieri pensate io abbia deciso di passare la mia prima domenica in
Giappone? Ovviamente ad Harajuku e Shibuya, due quartieri che sono sempre
affollatissimi, peggio ancora di domenica.
Il motivo? Mi ero messa in testa che volevo andare a vedere i Rockabilly al parco Yoyogi e visto avevo letto che era possibile vederli solo la domenica avevo programmato la visita per quel giorno. Gravissimo errore. In primo luogo perché i Rockabilly non li ho mica visti (probabilmente a causa del fatto che non abbiamo avuto il tempo di girare tutto il parco) e poi perché lo stress della calca mi ha portato vari attacchi di nervi distribuiti durante tutta la giornata. Ma andiamo con ordine.
Il motivo? Mi ero messa in testa che volevo andare a vedere i Rockabilly al parco Yoyogi e visto avevo letto che era possibile vederli solo la domenica avevo programmato la visita per quel giorno. Gravissimo errore. In primo luogo perché i Rockabilly non li ho mica visti (probabilmente a causa del fatto che non abbiamo avuto il tempo di girare tutto il parco) e poi perché lo stress della calca mi ha portato vari attacchi di nervi distribuiti durante tutta la giornata. Ma andiamo con ordine.
Siamo
uscite dall’hotel dopo le 10.00 e siamo andate a prendere il treno. Dalla
stazione di Akihabara si arriva in una 20ina di minuti prendendo la JR Chuo
line fino a Yoyogi e poi cambiando con la Yamanote line fino ad Harajuku. Se
non volete cambiare treno potete prendere direttamente la Yamanote line dalla
stazione di Akihabara o di Tokyo, ma il tempo di percorrenza è un po’ più
lungo.
Uscite
dalla stazione ci siamo ritrovate immediatamente davanti Takeshita dori, la via
dello shopping e delle mode giovanili di Harajuku, con il suo caratteristico
arco d’ingresso con una decorazione di palloncini che cambia di volta in volta,
nel nostro caso una Sirena e due pesci pagliaccio. Già dall’altro lato della
strada si vedeva come strabordasse di persone per cui abbiamo deciso di
iniziare la visita dal santuario Meiji Jingu.
Il
santuario si trova all’interno del parco Yoyogi, di fronte a Takeshita dori. Lo
individuerete subito grazie al suo enorme torii d’ingresso in legno immerso tra
gli alberi.
Oltre
il torii si è aperto alla nostra vista un enorme viale, visi orientali e
occidentali si alternavano. Il mio sguardo è stato subito catturato da una
madre con le sue due bambine che indossavano coloratissimi kimono. Nonostante
lo Shichi-go-san sia il 15 di novembre per tutto il mese ci è capitato di incontrare
bambini vestiti di tutto punto con abiti tradizionali che accompagnati dai
genitori facevano visita ai santuari. La cosa davvero carina in questo caso era
che le bambine erano si in kimono e perfettamente accorciate, ma poi ai piedi
avevano le scarpe da ginnastica.
Proseguendo
lungo il viale siamo giunte ad una parete fatta di barili di sakè impilati
l’uno sull’altro, pieni di disegni colorati e scritte a noi incomprensibili. A
quanto pare si trattava di donazioni fatte dalla Meiji Jingu Zenkoku Shuzo
Keinshinkai, l’Associazione Nazionale Fabbriche di Sakè, al fine di mostrare il
proprio rispetto verso le anime dell’Imperatore Meiji e dell’Imperatrice
Shoken, venerate nel santuario come divinità, in quanto durante il periodo del
loro governo in Giappone, favorirono la crescita industriale e incoraggiarono
lo sviluppo tecnologico e la modernizzazione del Paese.
Superati
altri due torii siamo arrivate ad un bel chozuya in pietra, legno e bamboo. In
qualche modo ci siamo sentite in dovere di seguire il rituale insegnatoci da
Yumi prima di accedere all’area sacra, per cui una volta bagnate mani e bocca
ci siamo inoltrate nell’area principale del santuario.
A differenza di altri santuari visitati precedentemente, dove per vedere un negi dovevi rincorrerlo, il Meiji Jingu brulicava di sacerdoti shintoisti che correvano a destra e a manca in chissà quali faccende affaccendati.
Uno
di loro, dotato addirittura di microfono, richiamava a gran voce i fedeli verso
lo stand di cui era evidentemente a capo, per poi letteralmente volare verso il
lato opposto a raccogliere le piastre di rame firmate da coloro che avevano
contribuito con le loro donazioni al rinnovo del tetto del padiglione
principale del santuario, in occasione del suo 100esimo anniversario, che sarà esattamente
nello stesso anno in cui si terranno le Olimpiadi a Tokyo, nel 2020.
Superato l’imponente portale in legno siamo infine giunte al padiglione principale.
La gente si accalcava all’ingresso per vedere i sacerdoti intenti in non so quale tipo di rituale, ma probabilmente qualcosa sempre legato allo Shichi-go-san, visto solo le famiglie con bambini potevano andare all’interno. Uno dei sacerdoti, vestito di bianco, indossava un copricapo nero oblungo e teneva in mano un bastone su cui erano appesi dei ritagli di carta.
Su
entrambi i lati del padiglione si trovavano dei frondosi e alti alberi verdi
legati a due a due dagli shimenawa, e attorno ad uno di essi era costruita una
grossa struttura in legno che ospitava tantissimi ema carichi di desideri.
Sono rimasta incantata dalla modo in cui il vento cullava le fronde degli alberi e passava tra le tavolette in legno, che sbattendo tra loro creavano una melodia dolce e rilassante. Sembrava davvero come se gli dèi fossero lì, in quel vento, a leggere i desideri della gente.
Sembrava davvero un momento troppo mistico e
propizio per non tentare anche noi di lasciare un messaggio alle divinità, per
cui, muniteci delle nostre migliori capacità di sintesi, al fine di concentrare
tutte le nostre aspirazioni e speranze in
una tavoletta di pochi centimetri, abbiamo comprato il nostro ema e
abbiamo iniziato a scrivere, per poi appenderlo nel posto più in vista
possibile. Non sia mai che agli dèi sfugga la nostra richiesta.
Terminata
la visita del santuario siamo andate alla ricerca di un posto dove mangiare.
Alla fine ci siamo decise per un ristorante di gyoza (ravioli cinesi) di cui
avevamo letto buone recensioni. E lì è cominciato il calvario. Fuori dal
ristorante c’era una fila inverosimile. Sono stata tentatissima di scappare e
cercare un altro posto, ma ovunque guardassi c’erano solo ristoranti con file
kilometriche, per cui mi sono rassegnata e sono rimasta in coda al mio posto.
Dopo tipo 1 ora e mezza siamo finalmente riuscite ad entrare. Il menù era
composto da praticamente solo 2 piatti: ravioli al vapore e ravioli alla
piastra. Dopo aver atteso un’altra mezz’ora siamo finalmente riuscite ad
ordinare. Abbiamo preso una porzione al vapore e due alla piastra.
I ravioli erano buoni, niente da dire, ma da qui a fare 2 ore di fila per rimanere sostanzialmente affamate ce ne passa. Potevamo prenderne un’altra porzione, ma non eravamo certe di quanto tempo ci sarebbe voluto perché fosse pronta, per cui abbiamo preferito lasciare il locale e optare per andare a prenderci una bella crepe.
I ravioli erano buoni, niente da dire, ma da qui a fare 2 ore di fila per rimanere sostanzialmente affamate ce ne passa. Potevamo prenderne un’altra porzione, ma non eravamo certe di quanto tempo ci sarebbe voluto perché fosse pronta, per cui abbiamo preferito lasciare il locale e optare per andare a prenderci una bella crepe.
Sulla
strada però ci siamo imbattute in un negozio di 5 piani di Kiddyland, per cui
non abbiamo potuto fare a meno di farci almeno un giro. L’emozione iniziale è
andata un po’ scemando quando ho visto che anche qui erano davvero pochi i
personaggi di anime o film che conoscevo. Ciò non toglie che Kiddyland va
comunque visitato, fosse anche solo per ritrovarsi faccia a faccia con Darth
Vader che va in giro con il trolley di Star Wars.
Attraversato
il cavalcavia ci siamo dirette verso Takeshita dori.
Eravamo già pronte ad attraversare la strada alla vista di negozi di moda e cartelloni pubblicitari con gli idol del momento ( tra cui uno degli Arashi che pubblicizzavano la birra Kirin) quando ci siamo accorte di un’immenso Brown dietro una vetrina.
Per chi non lo sapesse Brown è una delle mascotte, insieme a Cony, dell’app LINE, diffusissima in Giappone molto più di Whatsupp.
Eravamo già pronte ad attraversare la strada alla vista di negozi di moda e cartelloni pubblicitari con gli idol del momento ( tra cui uno degli Arashi che pubblicizzavano la birra Kirin) quando ci siamo accorte di un’immenso Brown dietro una vetrina.
Per chi non lo sapesse Brown è una delle mascotte, insieme a Cony, dell’app LINE, diffusissima in Giappone molto più di Whatsupp.
All’ingresso
del negozio poi c’era anche un cestino con dei cartellini da poter utilizzare
come balloons, per cui almeno una foto dovevamo farla per forza, nonostante ci
vergognassimo un po’ visto nessun altro
lo stava facendo. Neanche a dirlo nel giro di pochi minuti si è formata la fila
per fotografarsi con l’orso. Meno male che almeno una volta siamo arrivate per prime.
Giunte finalmente all’entrata di Takeshita dori (o meglio all’uscita, perché se non entriamo sempre dall’uscita non ci sentiamo soddisfatte) ci siamo dirette verso la prima bancarella di crepes che abbiamo trovato. Che vendessero crepes lo abbiamo capito dall’insegna perché davanti c’era una fila senza fine che non permetteva neppure di vedere se fossimo nel posto giusto.
Sempre più rassegnate ci siamo messe in coda. Tutto sommato devo dire che per quanto la coda fosse lunga scorreva abbastanza velocemente. Dopo solo (si fa per dire) mezz’ora eravamo già abbastanza vicine da poter vedere le raffigurazioni in plastica.
La
peggiore delusione della mia vita. A parte le crepes salate che non erano
nemmeno da tenere in considerazione, ma vi pare che il 90% delle crepes fossero
ripiene di panna montata? Io non mangio
la panna, è uno di quei pochi alimenti che non riesco proprio a ingerire, mi dà
immediatamente la nausea. Per i miei compleanni mia madre preparava sempre due
torte, una con la panna per i miei amici e una per me con la ricotta. Ed è
inutile dirmi che la panna giapponese è diversa dalla nostra, nessuno mi
convincerà mai a ingerire un dolce con la panna nella mia vita.
Fatto
sta che l’ampia scelta di crepes si è drasticamente ridotta, per cui ci siamo
accordate sul fatto di prenderne solo una da dividere, più un frappè al matcha
e oreo che ho assaggiato solo dopo che mia sorella aveva finito di mangiarsi
tutta la panna che c’era sopra.
Ho
fatto la mia ordinazione al grido di: " N. 82 vieni a me!", e mi sono messa in attesa
della mia crepe.
Mi aspettavo che dentro ci fosse un pezzo di torta al cioccolato grande almeno quanto quello nella raffigurazione in plastica, invece era solo un quadratino appoggiato sulla crepe e nemmeno molto buono. In compenso la crema pasticcera era davvero squisita, e lo dice una che di solito non la ama molto.
Finito
di mangiare ci siamo finalmente immesse nella via dello shopping più famosa del
Giappone, o almeno ci abbiamo provato. La strada era così piena di gente che
sembrava di essere in un vagone della metro all’ora di punta. Impossibile
camminare, figurarsi superare. Ci siamo infilate nel primo negozio di vestiti
che abbiamo trovato. C’erano dei maglioncini e delle gonne adorabili e dei
prezzi non male ma capire quale fosse la taglia è stato impossibile. Non che
pensassi di trovare qualcosa della mia misura, non scherziamo, ma almeno mia
sorella poteva tentare. Ha provato una gonna che su un manichino sembrava
stupenda e nonostante la misura fosse quella giusta, le cadeva in modo strano. Era
chiaro che quei vestiti fossero pensati per corpi bidimensionali.
Siamo
passate poi da Etude House a comprare delle maschere per i punti neri e per le
occhiaie e poi da Liz Lisa a guardare i vestiti. Io adoro questo brand. Non ci
comprerei mai niente perché i prezzi sono alti e mi sentirei un’idiota ad
andare in giro vestita in quel modo, ma nonostante ciò adoro quello stile tutto
pizzi, merletti e fiocchi.
Abbiamo poi fatto un giro al Daiso, un negozio
simile a i nostri “Tutto a 0,99 cent”. C’erano ben 5 piani di roba. Ho girato
come una trottola su e giù più volte, ma alla fine ho trovato i cutter per
tagliare le verdure che agognavo da una vita.
Tra
le tante insegne color pastello dei negozi una in particolare ha attirato la
nostra attenzione. La scritta Purikura campeggiava su uno sfondo rosa. Non
potevamo non entrare.
Ero già rassegnata a fare almeno un’ora di fila per fare la benedetta foto quando abbiamo scorto una macchinetta libera. Ho praticamente spinto mia sorella dentro per occuparla mentre finivo di cambiare i soldi.
Ero già rassegnata a fare almeno un’ora di fila per fare la benedetta foto quando abbiamo scorto una macchinetta libera. Ho praticamente spinto mia sorella dentro per occuparla mentre finivo di cambiare i soldi.
Abbiamo
fatto del nostro meglio per fare le pose più sceme ci venissero in mente ma
quell’aggeggio infernale ti mette una fretta assurda, non ho avuto nemmeno il
tempo di togliermi la giacca. Non capivo niente di quello che mi dicesse di
fare e anche la decorazione delle foto è stata un’impresa, siamo andate molto a
caso. Ho provato anche a spedirmi le foto per mail ma non ho finito di scrivere
il mio indirizzo che già era terminato il tempo.
Il
risultato finale è stato abbastanza esilarante, per non dire inquetante. Sembravano caricature non foto.
Quei filtri che stanno così bene sui visi orientali su di noi erano solo
ridicoli. Sembravamo due con le facce piene di botox.
Lasciata
Harajuku verso le 16.30 ci siamo dirette verso Shibuya. Prendendo la JR
Yamanote line è a una sola fermata di distanza, ma se vi va di camminare, da
Harajuku si ci arriva tranquillamente in 20 min.
Ci
sono 2 cose a Shibuya che chi visita il Giappone per la prima volta deve
assolutamente andare a vedere: la statua di Hachiko e lo Shibuya crossing.
Hachiko
era un cane bianco di razza Akita. Il suo padrone Hidesaburo Ueno era professore
all’Università Imperiale di Tokyo, ma abitava a Shibuya, per cui era costretto
a fare il pendolare per recarsi a lavoro. Ogni giorno Hachiko lo accompagnava a
prendere il treno e poi tornava ad aspettarlo in stazione alle 17.00, orario
del suo rientro. Il 21 maggio del 1925 però il professore non fece ritorno,
colpito da un ictus mentre era a lavoro. Il cane si presentò come suo solito in
stazione, ma non vedendo arrivare il padrone lo aspettò e tornò anche nei
giorni successivi.
Pian
piano che passò il tempo le persone che prendevano frequentemente il treno alla
stazione di Shibuya si accorsero di lui e la sua storia divenne talmente famosa
che la gente visitava il quartiere solo per vederlo.
Nel
1934 lo scultore Teru Ando realizzò una statua con le sembianze del cane, divenuto
ormai simbolo di fedeltà e affetto, da porre a uno degli ingressi della
stazione di Shibuya.
Hachiko
morì l’8 marzo del 1935 di filariasi, dopo essere tornato tutti i giorni ad
aspettare il padrone invano per la bellezza di 10 anni di fila. Il suo corpo fu
conservato tramite tassidermia ed esposto al Museo Nazionale di Natura e Scienze,
mentre parte delle sue ossa furono sepolte ad Aoyama, accanto alla tomba del
professor Ueno.
Durante
la Seconda Guerra Mondiale la statua di Hachiko fu fusa a causa dell’ingente
necessità di metalli per contribuire allo sforzo bellico, ma una volta finita la guerra, nel 1948 fu
commissionata una nuova statua al figlio di Teru Ando, Takeshi, da porre nello
stesso luogo in cui si trovava la precedente.
Quando
siamo arrivate la statua era completamente circondata da un tumulto di persone
che si succedevano per scattarsi foto con essa. O almeno questo pensavamo. In
realtà, una volta avvicinateci abbastanza da vedere la statua, ci siamo accorte
che la gente si ammassava attorno ad essa per un motivo diverso. Accoccolato
tra le zampe di Hachiko e poggiato su una sciarpa blu e bianca difatti, si
trovava un gattone languido con al
collo, una sorta di collare, fatto con un elastico per capelli rosa. Le persone
si avvicendavano intenerite per accarezzarlo. Il micio aveva calamitato tutta l’attenzione
di solito rivolta al cane. Mi sono quasi sentita dispiaciuta per Hachiko, e
anche per il povero gatto che chiaramente qualcuno aveva piazzato lì al freddo
e al gelo solo per fare scena.
Ho
letto poi che sono già vari anni che il gatto staziona tra le zampe del cane e
per quanto la cosa possa sembrare tenera, perché idealmente Hachiko non è più
solo ad aspettare il suo padrone ma ha trovato un amico che gli fa compagnia, è
evidente che quel gatto non è un randagio, visto il pelo molto curato e come
era agghindato, per cui mi chiedo se davvero questa sia un’abitudine che il
felino ha preso da sé o se tutti i giorni il padrone lo mette lì apposta.
Dopo
la foto di rito ci siamo dirette verso l’incrocio di Shibuya, il più trafficato
al mondo a quanto pare. Ritrovarsi ad attraversare insieme a migliaia di
persone che si muovono tutte in direzioni diverse è una sensazione stranissima.
È come essere tra gli spettatori di un concerto affollato, ma questi invece di
star fermi o saltare sul posto, iniziano a muoversi in tutte le direzioni, e tu
stesso sai che devi muoverti, ma lo fai quasi a rilento, terrorizzato che ti
vengano tutti addosso.
Se poi mentre attraversi tenti di girare anche un video è pure peggio perché dovendo guardare edentro l’obiettivo non riesci ad avere una percezione chiara di cosa hai attorno e quindi dove mettere i piedi. Vi dico solo che abbiamo attraversato l’incrocio con mia sorella che non la smetteva di sghignazzare, mentre filmava, perchè non capiva dove andare e io che guardavo la strada, spingendola verso la direzione giusta. Se volete farvi un’idea della sensazione vi lascio il video qui sotto.
Giunte “in salvo” (come dice mia sorella nel video) dall’altro lato della strada, siamo entrate da Starbucks nella speranza di riuscire a fare qualche ripresa dell’incrocio dall’alto.
La
porta di accesso si apriva su due ambienti, a destra c’era Starbucks e a
sinistra un negozio di musica. Per entrare da Starbucks bisognava prima passare
dalla cassa a comprare qualcosa altrimenti non era possibile accedere ai
tavoli. Essendo ancora piene non ci andava per niente di comprare qualcosa e
poi alla cassa c’era una fila sterminata di persone, ma per la voglia di poter
vedere l’incrocio dall’alto ci siamo messe in coda. Eravamo lì da pochi minuti
quando una musica familiare proveniente dal negozio accanto ha attirato la
nostra attenzione. “Don’t you get it” degli Arashi. Di nuovo. Ci siamo guardate
in faccia e abbiamo capito che non ce ne fregava niente dello Shibuya crossing,
volevamo entrare nel negozio di musica.
La
melodia veniva da un televisore che stava trasmettendo il videoclip della
canzone e sotto di esso c’era un pannello che pubblicizzava il nuovo disco e
dei loro vecchi album. Non riuscivamo a crederci.
Esaltate come non mai ci siamo messe alla
ricerca del nuovo disco ( visto i vecchi album li avevamo già) all’interno del
negozio. Perché non portarselo a casa come ricordo del viaggio?
Come no, ovviamente era tutto esaurito. Ci
siamo consolate ascoltandolo dalla Top ranking degli album più venduti dove,
neanche a dirlo, erano al primo posto.
Facendo
un giro del negozio abbiamo poi trovato altre piccole chicche che avremmo
voluto portarci a casa. I dvd dei concerti dei One Ok Rock e dei Radwimps. E
qui si è aperto il dibattito. Prenderne uno di entrambi i gruppi era fuori
discussione, troppo cari. Ma come si fa a scegliere tra Radwimps e One ok rock?
Semplicemente
non si può, per cui li abbiamo lasciati, a malincuore, entrambi in negozio.
Mentre
ci dirigevamo al primo piano (il negozio era su due livelli), nell’etere è
iniziata a risuonare un’altra canzone dal nuovo album degli Arashi “Ai wo
sakebe” e ci siamo sentite in dovere di filmare il momento. La metto qui per
farvela sentire sperando youtube non mi azzeri l’audio per violazione del
copyright.
Saremmo
rimaste in quel negozio tutta la sera ma non ci è sembrato il caso. Dopo aver
finito anche il giro del primo piano ci stavamo preparando ad uscire quando
ci siamo accorte che, esattamente come al piano terra, anche il primo piano era
diviso in due parti, e dal lato opposto al negozio di musica c’era il primo
piano di Starbucks, ma qui non c’era nessuna cassa per le ordinazioni a
separarci dalla vista sul quartiere.
Ci
siamo fiondate dentro per immortalare il momento esatto in cui, allo scattare
del verde, la folla di persone attraversava l’incrocio. Sembrava di star
guardando tante formiche che frettolosamente scappavano in tutte le direzioni.
Eppure tra quelle formiche c’eravamo anche noi fino a poco prima.
Uscite dalla caffetteria abbiamo poi fatto un giro del quartiere e di alcuni negozi tra cui il famoso 109 per poi dirigerci finalmente a cena.
Abbiamo
optato per un kaiten sushi e anche qui c’era tantissima fila. Ormai rassegnate
ci siamo appuntate sulla lista d’attesa del ristorante e abbiamo aspettato il
nostro turno. Dopo un’ora siamo finalmente riuscite ad entrare.
I kaiten
sushi sono quei ristoranti dove il sushi viene servito in dei piattini di
diverso colore tramite un nastro trasportatore. Ad ogni colore del piatto corrisponde
un diverso prezzo. Questi ristoranti sono ormai di moda anche in Italia, ma ciò
che li differenzia dai kaiten nostrani è che qui c’è la possibilità di ordinare
tramite tablet e la vostra ordinazione vi arriverà tramite un carrellino
direttamente sulla parte di nastro di fronte a voi.
Ci
siamo sedute, ci siamo preparate il tè (che era gratuito come in tutti i
ristoranti giapponesi), e abbiamo iniziato a ordinare, calcolatrice alla mano,
per evitare di eccedere nella spesa senza rendercene conto. Per fortuna sul
tablet si poteva selezionare anche la lingua inglese.
La
prima cosa che ho notato è che le porzioni di sushi non erano neanche
paragonabili a quelle che troviamo in Italia. Erano grandi almeno il doppio e
coperte da una striscia di pesce che nascondeva completamente il riso, tanto
era lunga. C’era poi una grandissima varietà di scelta, altro che solo salmone,
come nella maggior parte dei ristoranti in Italia.
Abbiamo
provato vari tipi di pesce, alcuni non abbiamo capito bene nemmeno cosa
fossero, ma ci è piaciuto tutto e con circa 15 euro totali da dividere in due,
siamo uscite da lì belle piene.
Eravamo
abbastanza stanche per la giornata interminabile di file ma abbiamo deciso di
non tornare subito in hotel perché c’era ancora un posto che volevamo vedere.
Avremmo
dovuto andarci il giorno in cui eravamo state a Mitaka, ma la visita al Museo
Ghibli ci aveva stremate, per cui lo avevamo già rimandato. Rimandarlo di nuovo
avrebbe significato probabilmente non andarci affatto, quello difatti era il
nostro penultimo giorno dedicato alla visita di Tokyo, per cui ci siamo fatte
forza e siamo partite alla volta di Roppongi.
Ci
sono vari modi per arrivare a Roppongi da Shibuya. Noi abbiamo preso la Jr
Yamanote line fino ad Ebisu e poi abbiamo cambiato con la Tokyo Metro Hibiya
line fino a Roppongi.
Ciò
che ci interessava vedere del quartiere era sostanzialmente Roppongi Hills.
Questa è una zona di grattacieli che si sviluppano attorno ad una piazza nella
quale si trova il gigantesco ragno della scultrice Louise Bourgeois.
Ho desiderato
vedere questo posto da quando ho visto il ragno la prima volta nel drama giapponese
“Bambino” con Matsujun degli Arashi.
In
qualche modo gli Arashi c’entrano sempre. O meglio in realtà è stato il
contrario. È forse proprio a causa di questo ragno se io e mia sorella abbiamo
iniziato a seguire questo gruppo.
Avevo
iniziato questo drama perché ero incuriosita dal titolo in italiano e dal fatto
che si trattasse di un ragazzo che voleva diventare chef di un ristorante di
cucina italiana. La storia non mi aveva preso molto all’inizio ma quando ho
visto il protagonista uscire dalla metro e ritrovarsi davanti il ragno gigante,
non sono riuscita a interrompere la visione, curiosa di carpire informazioni su
dove il ragno effettivamente si trovasse, per metterlo tra le cose da andare a
vedere in Giappone. Questo succedeva circa 5 anni prima dell’effettiva partenza
per il mio viaggio (lo so non sono normale).
Fatto
sta che alla fine mi sono appassionata al drama e ho finito con il vederlo
tutto e soprattutto con il farmi ossessionare dalla sigla, che ho scoperto
essere cantata dagli Arashi solo quando Matsujun, alla fine di un episodio, ha invitato gli spettatori a comprare il loro CD mostrandolo su un piatto da
portata.
Il
passo successivo è stato andare a cercare la canzone e il gruppo che la
cantava. Mi sono ritrovata davanti un videoclip così osceno e un gruppo di
ragazzi che ballavano talmente scoordinati tra loro che non ho potuto fare a
meno di condividere la scoperta con mia sorella, per cui abbiamo iniziato a
vedere insieme tutti videoclip delle loro canzoni senza riuscire a smettere di
ridere. Da lì ad imparare i testi a memoria e cominciare ad amarli il passo è
stato breve.
Galeotto
fu il ragno dunque, per cui ci tenevamo ad andare a vederlo.
Roppongi
Hills di sera lascia abbastanza sbalorditi. Il ragno gigante, sul cui sfondo si
stagliava l’altissimo grattacielo ricoperto di luci della piazza, era molto più
monumentale di quello che ci aspettavamo e anche più spaventoso.
Alla
sinistra del grattacielo si trovava la sede della tv Asahi, il canale che
trasmette Doraemon. Ci sarebbe piaciuto visitarla ma siamo arrivate troppo
tardi per cui era già chiusa.
Ma
la cosa che indubbiamente ci ha più colpite di Roppongi è stata l’incredibile
vista che si aveva dalla piazza sulla Tokyo Tower. La torre svettava rossa e
altissima sulla città illuminando come un faro il buio della notte.
Siamo
tornate in hotel distrutte ma con ancora negli occhi quel meraviglioso
spettacolo.
Se volete saperne di più sui luoghi visitati vi invito a leggere gli approfondimenti:
Meiji Jingu
Tokyo Tower
Se volete saperne di più sui luoghi visitati vi invito a leggere gli approfondimenti:
Meiji Jingu
Tokyo Tower
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