Giorno 4: Tokyo, perdiamoci insieme! Panorama e Museo Ghibli
La storia dietro la tappa principale del mio quarto giorno
in Giappone è cominciata circa un mese prima, esattamente il 10 del mese
precedente, ore 10.00 giapponesi, ore 3.00 di notte italiane.
O forse è cominciata
ancora prima, quando mi sono iscritta al laboratorio di cineforum durante il mio secondo
anno di superiori. Avevamo a disposizione un carnet con 4 ingressi al cinema
d’autore della nostra città. Ricordo di aver letto tutte le trame e di essermi
accordata con i miei amici su quale film andare a vedere. Ricordo di essere
scesa a compromessi su alcuni film pur di andare in compagnia, ma ricordo anche
che c’era un film a cui davvero non riuscivo a rinunciare. Nessuno voleva
andare a vederlo eppure quel film mi attraeva con una forza irresistibile.
All’epoca non sapevo nulla a riguardo, né sul regista, né sulla casa
cinematografica, e quel film era assolutamente sconosciuto in Italia, esattamente come tutti gli altri film dello stesso
autore. Il successo è arrivato moltissimi anni dopo. Eppure c’era qualcosa in
quella piccola trama di poche righe che mi aveva totalmente incantato.
Sono andata a vedere i primi 3 film e mi sono divertita
perché ero con i miei amici, ma nessuno di quei film mi ha lasciato un segno
particolare. Sono andata a vedere quel quarto film con mia sorella, dopo averla
letteralmente costretta a venire perché non volevo andare al cinema da sola, e
mi sono innamorata. Davanti a me si è aperto un mondo, un mondo che avevo visto
tante volte nei miei sogni ma che qualcuno era stato capace di rappresentare in
un film. Immense colline ricoperte di fiori, stelle cadenti, magia, una porta
che si apre su tanti luoghi differenti, e una ragazza con i capelli del colore
delle stelle. Quello era “Il castello errante di Howl” e da lì è cominciato il
mio grande amore per Hayao Miyazaki e i meravigliosi film dello Studio Ghibli.
© Studio Ghibli Italia |
Molto tempo dopo, quando gli amici che avevo ammorbato per
secoli consigliandogli di vedere i film dello Studio Ghibli, iniziavano ad ammorbarmi consigliandomi di vedere quegli
stessi film che io avevo consigliato loro secoli prima, solo perché ora erano
diventati famosi e li conoscevano tutti, io ero già proiettata più in là, davanti
un computer, alle 3.00 di notte, per tentare di concretizzare un sogno che
ribolliva nelle mie vene da 13 anni. Perché avevo scoperto che c’era un luogo
in Giappone dove potermi sentire dentro quel sogno, un luogo piccolino
piccolino ma attaccato ad un enorme parco, in una zona periferica di Tokyo. Il
Museo d’arte Ghibli. E io dovevo assolutamente andarci.
Essendo un luogo piccolino ed essendo tante le persone che
ogni giorno vogliono visitarlo, gli ingressi sono a numero programmato e
scanditi per fasce d’orario. Noi avevamo a disposizione solo 2 settimane per
andare ma in una di queste settimane il museo sarebbe stato chiuso per lavori,
per cui le settimane si riducevano a una.
Come acquistare il biglietto? Partendo dal principio che il
biglietto costa 1000 yen (circa 8 euro dipende dal cambio), diciamo che noi
italiani abbiamo 3 possibilità:
- Farselo comprare da un amico giapponese in Giappone attraverso le macchinette Loppy dei Lawson.
- Acquistarlo da un rivenditore italiano con le maggiorazioni di prevendita e spedizione che porterà il costo del biglietto ad una cifra che varia tra i 20 e i 35 euro.
- Acquistarlo, come ho fatto io, dal sito internet in inglese della catena Lawson. Questo sito apre le vendite il 10 di ogni mese alle ore 10 giapponesi per i biglietti del mese successivo. Per capirsi, io sono andata a novembre e ho acquistato il biglietto il 10 di ottobre alle ore 10 giapponesi che allora erano le 3 di notte italiane.
Semplicemente perché, come avevo previsto, non li avrei
trovati. Tutti i biglietti sono andati esauriti in una manciata di minuti. Alle
2.55 ero già sul piede di guerra davanti al computer e con il dito pronto, allo
scoccare delle 3.00 ho iniziato la battaglia per la prenotazione. Ho fatto un
primo tentativo per entrare al museo alle 10.00 ma dopo pochi passaggi mi ha
segnalato che i posti erano finiti, non mi sono scoraggiata e ho fatto un
tentativo per entrare alle 12.00, sono arrivata quasi al pagamento ma di nuovo
i posti erano tutti esauriti, sono tornata alla pagina iniziale e quasi la
disperazione mi ha assalito quando ho visto tutti gli orari segnalare
l’esaurimento dei biglietti. Ho scorto ancora pochi biglietti per entrare alle
14.00 così ho fatto un ultimo tentativo, sono arrivata al pagamento ma il sito
rifiutava la mia carta di credito. Mi ero quasi arresa quando mia sorella
ha provato con la sua carta e finalmente
la scritta “acquisto effettuato con successo” è comparsa davanti ai miei occhi.
Non mi sembrava vero. Eravamo tornate vittoriose dalla nostra battaglia. Poco
importava che sarei dovuta alzarmi alle 6.00 per andare a lavoro e tra la gioia
e i festeggiamenti si erano già fatte le 4.00. Avevamo sconfitto il sonno, i
compratori rivali internazionali e i rivenditori
italiani ottenendo i nostri biglietti a 8 euro come se li avessimo comprati in
Giappone. Avremmo realizzato quel sogno che tanto avevamo agognato e io avevo
già iniziato a toccare il cielo con un dito.
Visto il nostro appuntamento era alle 14.00 abbiamo deciso
di iniziare il nostro quarto giorno in Giappone da Shinjuku, uno dei quartieri
più famosi di Tokyo, ed andare a vedere il panorama della città dall’alto.
Per arrivare a Shinjuku abbiamo preso la JR Chuo line dalla
stazione di Akihabara e abbiamo raggiunto i Tokyo Metropolitan Governement
Offices con una passeggiata di una decina di minuti. Il quartiere di Shinjuku è
incredibilmente moderno e pieno di grattacieli, dalla stazione la nostra meta
era ben segnalata e l’abbiamo raggiunta percorrendo un viale ampio e dritto.
Potete riconoscere l’edificio perché è costituito da due grattacieli collegati
che si affacciano su una grande piazza sferica. Tutto l’insieme è stato
costruito in granito grigio e progettato da Kenzo Tange e oggi ospita la sede
del governo metropolitano di Tokyo, come dice il nome stesso.
Quando siamo arrivate la prima cosa che ha attirato la
nostra attenzione è stata la scritta Tokyo 2020 con sotto gli anelli
olimpionici in un pannello attaccato all’edificio. È chiaro che buona parte del
Giappone è già in fermento per ospitare questo grande evento sportivo. E la
cosa carina e che ci ha fatto anche un po’ ridere è che nell’edificio di
fronte, alla stessa altezza del pannello menzionante le Olimpiadi c’era una
stampa gigante raffigurante Astro boy.
Magari le due cose non erano minimamente collegate ma ai
miei occhi sono apparse come l’emblema dello spirito giapponese e di ciò che
amo profondamente di questo paese. Astro boy e le Olimpiadi possono avere
entrambe un posto di pari valore ed anzi in qualche modo rafforzarsi l’un
l’altro ponendo l’accento sullo spirito combattivo del personaggio come auspicio
per affrontare al meglio le Olimpiadi. So di essermi molto probabilmente
fatta un viaggio mentale da sola e quei
due pannelli non avevano niente a che vedere l’uno con l’altro, ma d’altro
canto il primo ministro Shinzo Abe si è presentato alle Olimpiadi brasiliane,
per raccogliere il testimone, vestito da Super Mario, per cui anche fossero
solo mie farneticazioni, credo di non essere poi così lontana dalla realtà se
penso che i giapponesi avrebbero anche potuto pensare di collegare le due cose.
Entrate nell’edificio ci siamo dirette verso l’Osservatorio Nord per prendere l’ascensore che ci avrebbe portato al 45esimo piano. Essendo
un giorno festivo in Giappone, c’era un po’ di fila per salire, ma ce l’abbiamo
fatta in una mezz’oretta scarsa. Abbiamo scelto di venire qui a osservare il
panorama dall’alto perché Shinjuku ci veniva di strada per andare al museo, ma
anche perché da qui la vista è totalmente gratuita. Non ne ho ancora ben compreso
il motivo ma tutti i luoghi da cui è possibile accedere ad una vista panoramica
della città (vedi Tokyo Tower o Tokyo Sky Tree) sono costosissimi.
In ogni caso dopo la mezz’oretta di fila l’ascensore ci ha
portato all’ultimo piano in pochi secondi. L’ultimo piano è un’ampia stanza a
vetrate che permette una vista a 360° del quartiere da un’altezza di 202 m, con
al centro un numero imprecisato di stand di souvenir.
Gli abbiamo dato un’occhiata veloce perché ciò che davvero
ci interessava era oltre il vetro. Ed oltre il vetro c’era Tokyo a perdita
d’occhio. Impossibile credere che ci fosse una fine a quell’immensità.
Grattacieli su grattacieli fino all’orizzonte e oltre, una città ultramoderna
eppure anche con tante aree verdi. Tokyo è così immensa che il mio occhio non
riusciva a vederne a sufficienza. Come si può descrivere qualcosa che è tanto
più grande di noi?
Fremevo per riuscire a vedere la Tokyo Tower da lontano ma a
quel punto sono rimasta tremendamente delusa. Una parte della vista difatti,
che era a 360°, è stata preclusa dalla costruzione di un ristorante, per cui
solo i clienti del locale possono accedere alla vista di quella parte di Tokyo,
la parte in cui si vedeva la Tokyo Tower appunto.
Un po’ amareggiata ho lasciato l’osservatorio, ma comunque
felice che presto avrei raggiunto il tanto sognato Museo Ghibli.
Da Shinjuku abbiamo ripreso la JR Chuo line e siamo scese
alla stazione di Kichijoji. Il quartiere di Kichijoji ci è sembrato da subito
adorabile, i negozi e l’atmosfera in generale avevano qualcosa di magico che
ricordavano tanto i film di Miyazaki. Per raggiungere il Museo ci sono voluti
circa 30 minuti e buona parte della passeggiata costeggiava il parco
Inokashira. Sarei tanto voluta passare dentro il parco ma visto eravamo un po’
strette con i tempi abbiamo deciso di rimandare
la visita a quando saremmo uscite dal museo.
La nostra esaltazione
ha cominciato a crescere alla vista della prima insegna “Ghibli museum, Mitaka
300 m”per poi esplodere davanti a un Totoro, posto a mo’ di receptionist
all’ingresso del Museo.
In generale tutta la struttura era adorabile, un edificio
piccolo ma semi-ricoperto dalla vegetazione che ti trasportava immediatamente
nelle atmosfere dei film di Miyazaki, non per niente il museo è nato su suo
progetto.
Siamo arrivate al museo con un po’ di anticipo per cui ci
siamo sedute su una panchina vicino l’entrata e abbiamo deciso di pranzare con
degli onigiri che avevamo comprato al conbini la mattina. Ho tentato di
spiegare a mia sorella come fare ad aprirli ma lei non mi stava a sentire,
troppo presa nel tentativo di riuscirci da sola, tanto che uno ragazzo dello
staff del museo si è avvicinato, vedendola in difficoltà, e le ha mostrato come
fare, augurandoci un buon pranzo.
Arrivato il nostro turno, ci siamo messe in coda
all’ingresso (c’era parecchia gente) per cambiare il nostro voucher con il
biglietto vero e proprio, un fotogramma di uno dei film dello Studio Ghibli. Il
caso o il destino ha voluto per me che fosse un fotogramma da “Il castello
errante di Howl” da dove tutto ha avuto inizio, e questo mi ha reso
immensamente felice. Tra l’altro a cambiarci il biglietto è stato lo stesso
ragazzo degli onigiri, che ci ha subito riconosciute, il che ha messo un po’ in imbarazzo mia
sorella, ma è stato molto divertente.
Il motto del Museo è: “Perdiamoci, insieme” e proprio per
questa ragione non c’è un ordine di percorrenza delle sale ma si è liberi di
guardarsi attorno e di dirigersi verso ciò che ci attrae di più e anche tornare
indietro se si vuole.
Appena entrati ci si trova in una sala, coperta con un tetto
a vetrate ed un enorme ventilatore che ci ha ricordato tanto l’elica di
un’aereo. Da qui si ha accesso ad altre sale e si capisce chiaramente che
l’edificio ha altri due piani caratterizzati da balconate a cui si può accedere
salendo le scale o infilandosi dentro una sorta di gabbia per uccelli gigante.
E dovete credermi sulla parola perché purtroppo all’interno non era possibile
fare foto.
Abbiamo deciso di cominciare dall’esposizione permanente
“L’inizio del movimento”, una sala in cui viene spiegato come si riesce a
creare il movimento partendo da oggetti e immagini. C’erano vari marchingegni
con cui il visitatore può interagire, tutti realizzati con personaggi e disegni
dello Studio Ghibli. Doveva essere meraviglioso, peccato non siamo riuscite a
godercelo per nulla a causa della fila interminabile per provare ogni macchina,
che scorreva a passo di formica. Siamo uscite dalla stanza dopo mezz’ora
(davvero), talmente sfinite che abbiamo deciso di andarci a riposare nel
piccolo cinema Saturno in modo da non dover lottare con nessuno per goderci lo
spettacolo.
Il cortometraggio che abbiamo visto era “Koro no dai-sanpo”
(La grande passeggiata di Koro), la storia di un cagnolino che cerca di seguire
la sua padroncina a scuola ma ne perde le tracce e finisce per percorrere un
lungo tratto di strada alla ricerca della propria casa. La storia era davvero
semplice ma di una tenerezza incredibile ed in essa traspariva chiaramente il
tocco delicato tipico dello Studio Ghibli.
© MyAnimeList |
Recuperate un po’ di energie ci siamo dirette al secondo
piano (ovviamente passando dentro la gabbia per uccelli) e siamo andate a
vedere l’altra esposizione permanente dal titolo “Dove un film è nato” in cui
veniva spiegata tutta la creazione di un film d’animazione a partire dall’idea,
ai primi bozzetti fino al film completo. C’era anche una stanza che riproduceva
lo studio d’animazione con il tavolo da lavoro, e i disegni, i colori, le
matite sparse dappertutto. Una cosa che
ho adorato e che ho trovato assolutamente geniale è stato il fatto che c’era
uno scatolone enorme pieno di matite quasi finite ma di fatto troppo corte per
essere ancora utilizzate per disegnare. Quindi perché accumularle in uno
scatolone invece di buttarle? Perché come si poteva vedere sulla scrivania le
prendevano a due a due e le legavano tra loro dal lato non temperato con lo
scotch, in modo da avere una matita più lunga da poter usare da entrambi i
lati. Geniale. Perché io non ci ho mai pensato prima? Se ripenso a quante
matite ancora buone ho sprecato mi viene il magone.
© matome.naver.jp |
L’unica nota dolente è stata che anche qui c’era talmente
tanta gente che non riuscivamo a muoverci e per entrare nel minuscolo studio
c’era un ingorgo tale che ci abbiamo messo una vita in coda, per poi poter dare
solo un’occhiata fugace e in punta di piedi per sovrastare le persone di fronte
a noi.
Una volta usciti da lì siamo andate verso la sala delle
“Esposizioni temporanee” e lì un sogno è diventato realtà. Davanti ai miei
occhi è comparso un enorme Gattobus a dimensione da adulti che mi ha reso
felice come non mai. Da quando ho visto “Il mio vicino Totoro” la prima volta,
il mio sogno è stato entrare dentro un Gattobus, e quando ho saputo che ce
n’era uno dentro al museo, ma era solo per bambini, ogni giorno mi sono
rammaricata di essere troppo grande per poterci entrare a giocare. Quello per
bambini effettivamente c’era e si trovava al terzo piano, ma come se mi
avessero letto nella mente e avessero voluto darmi un ulteriore regalo, al
secondo piano ce n’era un altro grande il doppio per adulti. Inutile dire che
mi ci sono fiondata dentro ed è stato molto difficile scollarmi via da lì.
Mia sorella tenta una foto a sgamo da dentro il Gattobus |
È stata una sensazione assurda, tipo stare seduta su un
peluche, il posto più comodo e morbido mai provato.
Arrivate al terzo piano e superato anche il Gattobus per
bambini, che dopo aver sperimentato quello per adulti abbiamo un po’ snobbato,
siamo uscite all’esterno per ritrovarci di fronte un’altra enorme gabbia per
uccelli, stavolta ricoperta di fogliame, che conduceva al tetto e a un’altra
delle cose che più agognavamo vedere, e che avevamo già adocchiato
dall’esterno, il robottone di “Laputa”.
Dentro la gabbia per uccelli |
La mia prima impressione è stata che fosse davvero alto,
credo superasse i 4 metri, e la seconda è stata che, toccandolo, mi è sembrato
fosse caldo. Noi siamo andate in autunno, non oso immaginare come possa essere
in estate.
C’era parecchia fila per farsi la foto con lui ma almeno
essendo in uno spazio aperto si soffriva meno, e poi il fatto che fosse immerso
nella vegetazione e che fossero presenti anche il cubo e un pozzo
semi-distrutto rendevano incredibilmente semplice sentirsi sull’isola volante.
Come nel film la natura sembrava pian piano riappropriarsi del territorio
mettendo anche qui in luce la forte importanza che Miyazaki ha sempre dato alla
tematica ambientalista e allo stesso tempo la sua vena poetica.
Scese dal tetto abbiamo fatto un giro allo shop “Mamma
aiuto”. Si, è scritto proprio in italiano, perché per chi non lo sapesse
un’altra tra le tematiche ricorrenti nei film di Miyazaki è proprio l’Italia
che lui tanto ama, per cui quando non gli dedica un film intero come in “Porco
Rosso” deve almeno trovare un qualche riferimento, ad esempio il liutaio di
Cremona ne “I sospiri del mio cuore”. Nello shop c’erano moltissimi gadget, sia
di piccole che grandi dimensioni, soprattutto degli ultimi film usciti, ma
tutti un po’ troppo costosi per le nostre tasche. Alla fine ci siamo concesse
solo un ricordino, un portachiavi con il ciondolo di “Laputa”, sempre per
rimanere in tema.
Uscendo dalla parte opposta si trovava il punto ristoro con
due cafè. Volevamo comprare qualcosa, ma anche qui i prezzi erano abbastanza
alti, inoltre non avevano più molta scelta di cibo visto si avvicinava l’orario
di chiusura. E si, perché tra file infinite e voglia di non andarsene abbiamo
trascorso lì dentro ben 3 ore, molto più tempo del previsto, tanto che una
volta usciti il sole era già tramontato.
In generale ciò che maggiormente mi ha colpito è
l’attenzione a ogni dettaglio, tutto è stato curato nei minimi particolari per
farti davvero sentire dentro un mondo magico e permetterti di volare libero con
la fantasia tra i film che ti hanno emozionato. Le vetrate ricordavano quelle
delle chiese gotiche, tanto erano colorate e particolareggiate nella
rappresentazione. Kiki, la streghetta che fa consegne a domicilio, faceva
capolino da una di esse.
Da una finestra si vedeva un gatto dall’aria misteriosa e
inquietante che ad un’occhiata da un diverso punto di vista sembrava sdoppiarsi
lasciandoti una sensazione sinistra.
Anche l’ambiente esterno era estremamente curato, il punto
ristoro stesso era parte della magia, con le sue porticine rosse e il
cappellino di Mei su sfondo giallo.
Prima di uscire abbiamo fatto una capatina in bagno, tra la
necessità e la curiosità di vedere com’era. Magari penserete, ma in ogni posto
che vai, passi sempre a controllare il bagno? Diciamo che se il bagno non fosse
stato all’altezza del resto ci sarei rimasta un po’ male ma anche quello era
curato nei dettagli e addirittura ogni wc aveva le pareti attorno decorate
secondo un tema diverso scritto fuori dalla porta. Era di una meraviglia unica.
Io sono finita circondata da un prato di fiori incantevole.
Avevamo già notato in precedenza, con nostro disappunto, che
la maggior parte dei bagni pubblici in Giappone non ha l’aggeggio dell’aria
calda per asciugarsi le mani. Questa cosa ci sembrava molto strana perché i
giapponesi sono sempre molto attenti anche ai dettagli più sciocchi ma che ti
semplificano la vita, tipo, scusate se parlo sempre di bagni, la mensola dove
appoggiare la borsa con gli specchi per rifarsi il trucco, separata dai
lavandini, che così può sembrare una scemenza ma dimezza i tempi di attesa, ed
evita che chi deve rifarsi il trucco intralci chi deve solo lavarsi le mani
come succede sempre in Italia. Fatto sta, comunque, che gli asciugatori non ci
sono per cui continuavamo ad uscire dal ogni toilette sventolando le mani zuppe
d’acqua per aria, finchè abbiamo fatto la grande scoperta.
Finito di lavarmi le mani ho intravisto il primo asciugatore
da quando ero arrivata in Giappone e mi ci sono precipitata come non ci fosse
un domani, visto ce n’era uno solo, non riuscendo a credere che fosse libero,
vista la fila tremenda fatta per entrare in bagno e per i lavandini. Finito di
asciugarmi le mani, mi sono girata per vedere quanta gente ci fosse dietro di
me ad attendere il suo turno, ma con sorpresa non c’era nessuno. Il dubbio si è
così insinuato nella mia mente. Perché se c’è l’asciugatore nessuno lo usa?
Continuavo a guardarmi intorno perplessa finchè non ho visto una ragazza
giapponese finire di lavarsi le mani e tirar fuori un asciugamanino che dopo
aver usato per tamponarsi la pelle dalle gocce d’acqua residue, ha riposto
nuovamente in borsa. E così tutte le altre giapponesi a seguire dopo di lei.
Insomma anche se
c’era l’asciugatore non importava niente a nessuno perché ognuna aveva il suo
asciugamano portato da casa e non ci pensavano proprio a usare qualcosa di
diverso da quello. Ed ecco spiegato anche perché non c’erano asciugatori negli
altri bagni pubblici. Non mi stupirei se in futuro lo togliessero anche da qui.
Come avevo accennato prima,
siamo uscite dal Museo che il sole era già tramontato, nonostante ciò
abbiamo deciso di recarci comunque al parco Inokashira per potergli dare almeno uno sguardo dall’interno e
arrivare al laghetto con le barche, che avevo sentito essere molto carino.
Peccato non si vedesse a un palmo dal naso. Abbiamo percorso la strada al buio
con la sola luce del cellulare, terrorizzate di ammazzarci nella discesa che
portava al laghetto, e anche una volta arrivate era tanto buio che non si
riusciva a distinguere niente. Ma dico, e l’illuminazione pubblica? Come può
essere che in tutto il parco non ci fosse neppure un lampione? Riflettendoci a
posteriori Tokyo mi è sempre sembrata molto illuminata ma questo perché ogni
angolo è pieno di insegne luminose dei ristoranti e dei cartelloni
pubblicitari, ma in quanto a lampioni, non sono sicura di averne visti molti.
Davvero l’illuminazione pubblica non c’è e tutto è affidato ai privati? Non ne
ho idea.
Ciò che conta è che la visita al parco è stata inutile e
anche abbastanza inquietante, ancora di più quando, sulla strada di ritorno in
stazione, ci siamo imbattute nel più grosso corvaccio nero che io abbia mai
visto. Ma è normale che i corvi in Giappone abbiano le stesse dimensioni dei
gabbiani?
Siamo scappate terrorizzate alla ricerca di illuminazione
artificiale e non ci siamo fermate finchè non siamo
arrivate nella zona della stazione. Prima di
tornarcene in albergo abbiamo deciso di concederci una pausa in un cafè che
dall’esterno esponeva dei piatti di plastica invitanti da morire. C’era un
parfait con fragole che mi chiamava dalla vetrina per cui ho dovuto rispondere.
All’interno il posto era affollatissimo, abbiamo fatto un po’ di fila per entrare
e una volta dentro anche ordinare non è stato semplice. Tutta colpa
dell’inglese, questo sconosciuto. Comunque in qualche modo siamo riuscite a
farci capire e anche a trovare un tavolo libero. Ciò che mi ha sorpreso di più
è stato che c’era tantissima gente che aveva finito il suo caffè o qualunque
cosa avesse preso e continuava a rimanere seduta a studiare o a leggere, a
lavorare al portatile o a chiacchierare, non preoccupandosi minimamente di
liberare i tavoli per dare spazio ai clienti successivi. Non lo dico in senso
negativo, mi ha solo sorpreso che la norma fosse quella.
Il mio parfait, alla fine, faceva più figura in plastica e
non era neppure tanto buono infatti le fragole erano congelate, mentre il dolce
in stile giapponese, con anko (marmellata di fagioli rossi) e gelato al tè
verde, di mia sorella non era affatto male.
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