Giorno 4: Tokyo, perdiamoci insieme! Panorama e Museo Ghibli


La storia dietro la tappa principale del mio quarto giorno in Giappone è cominciata circa un mese prima, esattamente il 10 del mese precedente, ore 10.00 giapponesi, ore 3.00 di notte italiane.
O forse è cominciata ancora prima, quando mi sono iscritta al laboratorio di cineforum durante il  mio secondo anno di superiori. Avevamo a disposizione un carnet con 4 ingressi al cinema d’autore della nostra città. Ricordo di aver letto tutte le trame e di essermi accordata con i miei amici su quale film andare a vedere. Ricordo di essere scesa a compromessi su alcuni film pur di andare in compagnia, ma ricordo anche che c’era un film a cui davvero non riuscivo a rinunciare. Nessuno voleva andare a vederlo eppure quel film mi attraeva con una forza irresistibile. All’epoca non sapevo nulla a riguardo, né sul regista, né sulla casa cinematografica, e quel film era assolutamente sconosciuto in Italia, esattamente come tutti gli altri film dello stesso autore. Il successo è arrivato moltissimi anni dopo. Eppure c’era qualcosa in quella piccola trama di poche righe che mi aveva totalmente incantato.
Sono andata a vedere i primi 3 film e mi sono divertita perché ero con i miei amici, ma nessuno di quei film mi ha lasciato un segno particolare. Sono andata a vedere quel quarto film con mia sorella, dopo averla letteralmente costretta a venire perché non volevo andare al cinema da sola, e mi sono innamorata. Davanti a me si è aperto un mondo, un mondo che avevo visto tante volte nei miei sogni ma che qualcuno era stato capace di rappresentare in un film. Immense colline ricoperte di fiori, stelle cadenti, magia, una porta che si apre su tanti luoghi differenti, e una ragazza con i capelli del colore delle stelle. Quello era “Il castello errante di Howl” e da lì è cominciato il mio grande amore per Hayao Miyazaki e i meravigliosi film dello Studio Ghibli.

© Studio Ghibli Italia
Molto tempo dopo, quando gli amici che avevo ammorbato per secoli consigliandogli di vedere i film dello Studio Ghibli, iniziavano ad ammorbarmi consigliandomi di vedere quegli stessi film che io avevo consigliato loro secoli prima, solo perché ora erano diventati famosi e li conoscevano tutti, io ero già proiettata più in là, davanti un computer, alle 3.00 di notte, per tentare di concretizzare un sogno che ribolliva nelle mie vene da 13 anni. Perché avevo scoperto che c’era un luogo in Giappone dove potermi sentire dentro quel sogno, un luogo piccolino piccolino ma attaccato ad un enorme parco, in una zona periferica di Tokyo. Il Museo d’arte Ghibli. E io dovevo assolutamente andarci.
Essendo un luogo piccolino ed essendo tante le persone che ogni giorno vogliono visitarlo, gli ingressi sono a numero programmato e scanditi per fasce d’orario. Noi avevamo a disposizione solo 2 settimane per andare ma in una di queste settimane il museo sarebbe stato chiuso per lavori, per cui le settimane si riducevano a una.
Come acquistare il biglietto? Partendo dal principio che il biglietto costa 1000 yen (circa 8 euro dipende dal cambio), diciamo che noi italiani abbiamo 3 possibilità:
  1. Farselo comprare da un amico giapponese in Giappone attraverso le macchinette Loppy dei Lawson.
  2.  Acquistarlo da un rivenditore italiano con le maggiorazioni di prevendita e spedizione che porterà il costo del biglietto ad una cifra che varia tra i 20 e i 35 euro.
  3. Acquistarlo, come ho fatto io, dal sito internet in inglese della catena Lawson. Questo sito apre le vendite il 10 di ogni mese alle ore 10 giapponesi per i biglietti del mese successivo. Per capirsi, io sono andata a novembre e ho acquistato il biglietto il 10 di ottobre alle ore 10 giapponesi che allora erano le 3 di notte italiane.
Quindi perché non aspettare l’indomani mattina per comprare i biglietti?
Semplicemente perché, come avevo previsto, non li avrei trovati. Tutti i biglietti sono andati esauriti in una manciata di minuti. Alle 2.55 ero già sul piede di guerra davanti al computer e con il dito pronto, allo scoccare delle 3.00 ho iniziato la battaglia per la prenotazione. Ho fatto un primo tentativo per entrare al museo alle 10.00 ma dopo pochi passaggi mi ha segnalato che i posti erano finiti, non mi sono scoraggiata e ho fatto un tentativo per entrare alle 12.00, sono arrivata quasi al pagamento ma di nuovo i posti erano tutti esauriti, sono tornata alla pagina iniziale e quasi la disperazione mi ha assalito quando ho visto tutti gli orari segnalare l’esaurimento dei biglietti. Ho scorto ancora pochi biglietti per entrare alle 14.00 così ho fatto un ultimo tentativo, sono arrivata al pagamento ma il sito rifiutava la mia carta di credito. Mi ero quasi arresa quando mia sorella ha  provato con la sua carta e finalmente la scritta “acquisto effettuato con successo” è comparsa davanti ai miei occhi. Non mi sembrava vero. Eravamo tornate vittoriose dalla nostra battaglia. Poco importava che sarei dovuta alzarmi alle 6.00 per andare a lavoro e tra la gioia e i festeggiamenti si erano già fatte le 4.00. Avevamo sconfitto il sonno, i compratori rivali internazionali e i rivenditori italiani ottenendo i nostri biglietti a 8 euro come se li avessimo comprati in Giappone. Avremmo realizzato quel sogno che tanto avevamo agognato e io avevo già iniziato a toccare il cielo con un dito.
Visto il nostro appuntamento era alle 14.00 abbiamo deciso di iniziare il nostro quarto giorno in Giappone da Shinjuku, uno dei quartieri più famosi di Tokyo, ed andare a vedere il panorama della città dall’alto.
Per arrivare a Shinjuku abbiamo preso la JR Chuo line dalla stazione di Akihabara e abbiamo raggiunto i Tokyo Metropolitan Governement Offices con una passeggiata di una decina di minuti. Il quartiere di Shinjuku è incredibilmente moderno e pieno di grattacieli, dalla stazione la nostra meta era ben segnalata e l’abbiamo raggiunta percorrendo un viale ampio e dritto. Potete riconoscere l’edificio perché è costituito da due grattacieli collegati che si affacciano su una grande piazza sferica. Tutto l’insieme è stato costruito in granito grigio e progettato da Kenzo Tange e oggi ospita la sede del governo metropolitano di Tokyo, come dice il nome stesso.



Quando siamo arrivate la prima cosa che ha attirato la nostra attenzione è stata la scritta Tokyo 2020 con sotto gli anelli olimpionici in un pannello attaccato all’edificio. È chiaro che buona parte del Giappone è già in fermento per ospitare questo grande evento sportivo. E la cosa carina e che ci ha fatto anche un po’ ridere è che nell’edificio di fronte, alla stessa altezza del pannello menzionante le Olimpiadi c’era una stampa gigante raffigurante Astro boy.
                                                                       
 


Magari le due cose non erano minimamente collegate ma ai miei occhi sono apparse come l’emblema dello spirito giapponese e di ciò che amo profondamente di questo paese. Astro boy e le Olimpiadi possono avere entrambe un posto di pari valore ed anzi in qualche modo rafforzarsi l’un l’altro ponendo l’accento sullo spirito combattivo del personaggio come auspicio per affrontare al meglio le Olimpiadi. So di essermi molto probabilmente fatta  un viaggio mentale da sola e quei due pannelli non avevano niente a che vedere l’uno con l’altro, ma d’altro canto il primo ministro Shinzo Abe si è presentato alle Olimpiadi brasiliane, per raccogliere il testimone, vestito da Super Mario, per cui anche fossero solo mie farneticazioni, credo di non essere poi così lontana dalla realtà se penso che i giapponesi avrebbero anche potuto pensare di collegare le due cose.
Entrate nell’edificio ci siamo dirette verso l’Osservatorio Nord per prendere l’ascensore che ci avrebbe portato al 45esimo piano. Essendo un giorno festivo in Giappone, c’era un po’ di fila per salire, ma ce l’abbiamo fatta in una mezz’oretta scarsa. Abbiamo scelto di venire qui a osservare il panorama dall’alto perché Shinjuku ci veniva di strada per andare al museo, ma anche perché da qui la vista è totalmente gratuita. Non ne ho ancora ben compreso il motivo ma tutti i luoghi da cui è possibile accedere ad una vista panoramica della città (vedi Tokyo Tower o Tokyo Sky Tree) sono costosissimi.


In ogni caso dopo la mezz’oretta di fila l’ascensore ci ha portato all’ultimo piano in pochi secondi. L’ultimo piano è un’ampia stanza a vetrate che permette una vista a 360° del quartiere da un’altezza di 202 m, con al centro un numero imprecisato di stand di souvenir.
Gli abbiamo dato un’occhiata veloce perché ciò che davvero ci interessava era oltre il vetro. Ed oltre il vetro c’era Tokyo a perdita d’occhio. Impossibile credere che ci fosse una fine a quell’immensità. Grattacieli su grattacieli fino all’orizzonte e oltre, una città ultramoderna eppure anche con tante aree verdi. Tokyo è così immensa che il mio occhio non riusciva a vederne a sufficienza. Come si può descrivere qualcosa che è tanto più grande di noi?  



Fremevo per riuscire a vedere la Tokyo Tower da lontano ma a quel punto sono rimasta tremendamente delusa. Una parte della vista difatti, che era a 360°, è stata preclusa dalla costruzione di un ristorante, per cui solo i clienti del locale possono accedere alla vista di quella parte di Tokyo, la parte in cui si vedeva la Tokyo Tower appunto.
Un po’ amareggiata ho lasciato l’osservatorio, ma comunque felice che presto avrei raggiunto il tanto sognato Museo Ghibli.
Da Shinjuku abbiamo ripreso la JR Chuo line e siamo scese alla stazione di Kichijoji. Il quartiere di Kichijoji ci è sembrato da subito adorabile, i negozi e l’atmosfera in generale avevano qualcosa di magico che ricordavano tanto i film di Miyazaki. Per raggiungere il Museo ci sono voluti circa 30 minuti e buona parte della passeggiata costeggiava il parco Inokashira. Sarei tanto voluta passare dentro il parco ma visto eravamo un po’ strette con i tempi abbiamo deciso di rimandare la visita a quando saremmo uscite dal museo.


La nostra esaltazione ha cominciato a crescere alla vista della prima insegna “Ghibli museum, Mitaka 300 m”per poi esplodere davanti a un Totoro, posto a mo’ di receptionist all’ingresso del Museo.



In generale tutta la struttura era adorabile, un edificio piccolo ma semi-ricoperto dalla vegetazione che ti trasportava immediatamente nelle atmosfere dei film di Miyazaki, non per niente il museo è nato su suo progetto.



Siamo arrivate al museo con un po’ di anticipo per cui ci siamo sedute su una panchina vicino l’entrata e abbiamo deciso di pranzare con degli onigiri che avevamo comprato al conbini la mattina. Ho tentato di spiegare a mia sorella come fare ad aprirli ma lei non mi stava a sentire, troppo presa nel tentativo di riuscirci da sola, tanto che uno ragazzo dello staff del museo si è avvicinato, vedendola in difficoltà, e le ha mostrato come fare, augurandoci un buon pranzo.


Arrivato il nostro turno, ci siamo messe in coda all’ingresso (c’era parecchia gente) per cambiare il nostro voucher con il biglietto vero e proprio, un fotogramma di uno dei film dello Studio Ghibli. Il caso o il destino ha voluto per me che fosse un fotogramma da “Il castello errante di Howl” da dove tutto ha avuto inizio, e questo mi ha reso immensamente felice. Tra l’altro a cambiarci il biglietto è stato lo stesso ragazzo degli onigiri, che ci ha subito riconosciute,  il che ha messo un po’ in imbarazzo mia sorella, ma è stato molto divertente.




Il motto del Museo è: “Perdiamoci, insieme” e proprio per questa ragione non c’è un ordine di percorrenza delle sale ma si è liberi di guardarsi attorno e di dirigersi verso ciò che ci attrae di più e anche tornare indietro se si vuole.
Appena entrati ci si trova in una sala, coperta con un tetto a vetrate ed un enorme ventilatore che ci ha ricordato tanto l’elica di un’aereo. Da qui si ha accesso ad altre sale e si capisce chiaramente che l’edificio ha altri due piani caratterizzati da balconate a cui si può accedere salendo le scale o infilandosi dentro una sorta di gabbia per uccelli gigante. E dovete credermi sulla parola perché purtroppo all’interno non era possibile fare foto.
Abbiamo deciso di cominciare dall’esposizione permanente “L’inizio del movimento”, una sala in cui viene spiegato come si riesce a creare il movimento partendo da oggetti e immagini. C’erano vari marchingegni con cui il visitatore può interagire, tutti realizzati con personaggi e disegni dello Studio Ghibli. Doveva essere meraviglioso, peccato non siamo riuscite a godercelo per nulla a causa della fila interminabile per provare ogni macchina, che scorreva a passo di formica. Siamo uscite dalla stanza dopo mezz’ora (davvero), talmente sfinite che abbiamo deciso di andarci a riposare nel piccolo cinema Saturno in modo da non dover lottare con nessuno per goderci lo spettacolo.
Il cortometraggio che abbiamo visto era “Koro no dai-sanpo” (La grande passeggiata di Koro), la storia di un cagnolino che cerca di seguire la sua padroncina a scuola ma ne perde le tracce e finisce per percorrere un lungo tratto di strada alla ricerca della propria casa. La storia era davvero semplice ma di una tenerezza incredibile ed in essa traspariva chiaramente il tocco delicato tipico dello Studio Ghibli.

© MyAnimeList
Recuperate un po’ di energie ci siamo dirette al secondo piano (ovviamente passando dentro la gabbia per uccelli) e siamo andate a vedere l’altra esposizione permanente dal titolo “Dove un film è nato” in cui veniva spiegata tutta la creazione di un film d’animazione a partire dall’idea, ai primi bozzetti fino al film completo. C’era anche una stanza che riproduceva lo studio d’animazione con il tavolo da lavoro, e i disegni, i colori, le matite sparse dappertutto.  Una cosa che ho adorato e che ho trovato assolutamente geniale è stato il fatto che c’era uno scatolone enorme pieno di matite quasi finite ma di fatto troppo corte per essere ancora utilizzate per disegnare. Quindi perché accumularle in uno scatolone invece di buttarle? Perché come si poteva vedere sulla scrivania le prendevano a due a due e le legavano tra loro dal lato non temperato con lo scotch, in modo da avere una matita più lunga da poter usare da entrambi i lati. Geniale. Perché io non ci ho mai pensato prima? Se ripenso a quante matite ancora buone ho sprecato mi viene il magone.

© matome.naver.jp
L’unica nota dolente è stata che anche qui c’era talmente tanta gente che non riuscivamo a muoverci e per entrare nel minuscolo studio c’era un ingorgo tale che ci abbiamo messo una vita in coda, per poi poter dare solo un’occhiata fugace e in punta di piedi per sovrastare le persone di fronte a noi.
Una volta usciti da lì siamo andate verso la sala delle “Esposizioni temporanee” e lì un sogno è diventato realtà. Davanti ai miei occhi è comparso un enorme Gattobus a dimensione da adulti che mi ha reso felice come non mai. Da quando ho visto “Il mio vicino Totoro” la prima volta, il mio sogno è stato entrare dentro un Gattobus, e quando ho saputo che ce n’era uno dentro al museo, ma era solo per bambini, ogni giorno mi sono rammaricata di essere troppo grande per poterci entrare a giocare. Quello per bambini effettivamente c’era e si trovava al terzo piano, ma come se mi avessero letto nella mente e avessero voluto darmi un ulteriore regalo, al secondo piano ce n’era un altro grande il doppio per adulti. Inutile dire che mi ci sono fiondata dentro ed è stato molto difficile scollarmi via da lì.
Mia sorella tenta una foto a sgamo da dentro il Gattobus
È stata una sensazione assurda, tipo stare seduta su un peluche, il posto più comodo e morbido mai provato.
Arrivate al terzo piano e superato anche il Gattobus per bambini, che dopo aver sperimentato quello per adulti abbiamo un po’ snobbato, siamo uscite all’esterno per ritrovarci di fronte un’altra enorme gabbia per uccelli, stavolta ricoperta di fogliame, che conduceva al tetto e a un’altra delle cose che più agognavamo vedere, e che avevamo già adocchiato dall’esterno, il robottone di “Laputa”.

Dentro la gabbia per uccelli


La mia prima impressione è stata che fosse davvero alto, credo superasse i 4 metri, e la seconda è stata che, toccandolo, mi è sembrato fosse caldo. Noi siamo andate in autunno, non oso immaginare come possa essere in estate.  
C’era parecchia fila per farsi la foto con lui ma almeno essendo in uno spazio aperto si soffriva meno, e poi il fatto che fosse immerso nella vegetazione e che fossero presenti anche il cubo e un pozzo semi-distrutto rendevano incredibilmente semplice sentirsi sull’isola volante. Come nel film la natura sembrava pian piano riappropriarsi del territorio mettendo anche qui in luce la forte importanza che Miyazaki ha sempre dato alla tematica ambientalista e allo stesso tempo la sua vena poetica.




Scese dal tetto abbiamo fatto un giro allo shop “Mamma aiuto”. Si, è scritto proprio in italiano, perché per chi non lo sapesse un’altra tra le tematiche ricorrenti nei film di Miyazaki è proprio l’Italia che lui tanto ama, per cui quando non gli dedica un film intero come in “Porco Rosso” deve almeno trovare un qualche riferimento, ad esempio il liutaio di Cremona ne “I sospiri del mio cuore”. Nello shop c’erano moltissimi gadget, sia di piccole che grandi dimensioni, soprattutto degli ultimi film usciti, ma tutti un po’ troppo costosi per le nostre tasche. Alla fine ci siamo concesse solo un ricordino, un portachiavi con il ciondolo di “Laputa”, sempre per rimanere in tema.
Uscendo dalla parte opposta si trovava il punto ristoro con due cafè. Volevamo comprare qualcosa, ma anche qui i prezzi erano abbastanza alti, inoltre non avevano più molta scelta di cibo visto si avvicinava l’orario di chiusura. E si, perché tra file infinite e voglia di non andarsene abbiamo trascorso lì dentro ben 3 ore, molto più tempo del previsto, tanto che una volta usciti il sole era già tramontato.
In generale ciò che maggiormente mi ha colpito è l’attenzione a ogni dettaglio, tutto è stato curato nei minimi particolari per farti davvero sentire dentro un mondo magico e permetterti di volare libero con la fantasia tra i film che ti hanno emozionato. Le vetrate ricordavano quelle delle chiese gotiche, tanto erano colorate e particolareggiate nella rappresentazione. Kiki, la streghetta che fa consegne a domicilio, faceva capolino da una di esse.


Da una finestra si vedeva un gatto dall’aria misteriosa e inquietante che ad un’occhiata da un diverso punto di vista sembrava sdoppiarsi lasciandoti una sensazione sinistra.


Anche l’ambiente esterno era estremamente curato, il punto ristoro stesso era parte della magia, con le sue porticine rosse e il cappellino di Mei su sfondo giallo.


Prima di uscire abbiamo fatto una capatina in bagno, tra la necessità e la curiosità di vedere com’era. Magari penserete, ma in ogni posto che vai, passi sempre a controllare il bagno? Diciamo che se il bagno non fosse stato all’altezza del resto ci sarei rimasta un po’ male ma anche quello era curato nei dettagli e addirittura ogni wc aveva le pareti attorno decorate secondo un tema diverso scritto fuori dalla porta. Era di una meraviglia unica. Io sono finita circondata da un prato di fiori incantevole. 

© David Corbin
Inoltre la visita ai servizi ha portato ad un’altra scoperta interessantissima.
Avevamo già notato in precedenza, con nostro disappunto, che la maggior parte dei bagni pubblici in Giappone non ha l’aggeggio dell’aria calda per asciugarsi le mani. Questa cosa ci sembrava molto strana perché i giapponesi sono sempre molto attenti anche ai dettagli più sciocchi ma che ti semplificano la vita, tipo, scusate se parlo sempre di bagni, la mensola dove appoggiare la borsa con gli specchi per rifarsi il trucco, separata dai lavandini, che così può sembrare una scemenza ma dimezza i tempi di attesa, ed evita che chi deve rifarsi il trucco intralci chi deve solo lavarsi le mani come succede sempre in Italia. Fatto sta, comunque, che gli asciugatori non ci sono per cui continuavamo ad uscire dal ogni toilette sventolando le mani zuppe d’acqua per aria, finchè abbiamo fatto la grande scoperta.
Finito di lavarmi le mani ho intravisto il primo asciugatore da quando ero arrivata in Giappone e mi ci sono precipitata come non ci fosse un domani, visto ce n’era uno solo, non riuscendo a credere che fosse libero, vista la fila tremenda fatta per entrare in bagno e per i lavandini. Finito di asciugarmi le mani, mi sono girata per vedere quanta gente ci fosse dietro di me ad attendere il suo turno, ma con sorpresa non c’era nessuno. Il dubbio si è così insinuato nella mia mente. Perché se c’è l’asciugatore nessuno lo usa? Continuavo a guardarmi intorno perplessa finchè non ho visto una ragazza giapponese finire di lavarsi le mani e tirar fuori un asciugamanino che dopo aver usato per tamponarsi la pelle dalle gocce d’acqua residue, ha riposto nuovamente in borsa. E così tutte le altre giapponesi a seguire dopo di lei.
Insomma anche se c’era l’asciugatore non importava niente a nessuno perché ognuna aveva il suo asciugamano portato da casa e non ci pensavano proprio a usare qualcosa di diverso da quello. Ed ecco spiegato anche perché non c’erano asciugatori negli altri bagni pubblici. Non mi stupirei se in futuro lo togliessero anche da qui.
Come avevo accennato prima,  siamo uscite dal Museo che il sole era già tramontato, nonostante ciò abbiamo deciso di recarci comunque al parco Inokashira per potergli  dare almeno uno sguardo dall’interno e arrivare al laghetto con le barche, che avevo sentito essere molto carino. Peccato non si vedesse a un palmo dal naso. Abbiamo percorso la strada al buio con la sola luce del cellulare, terrorizzate di ammazzarci nella discesa che portava al laghetto, e anche una volta arrivate era tanto buio che non si riusciva a distinguere niente. Ma dico, e l’illuminazione pubblica? Come può essere che in tutto il parco non ci fosse neppure un lampione? Riflettendoci a posteriori Tokyo mi è sempre sembrata molto illuminata ma questo perché ogni angolo è pieno di insegne luminose dei ristoranti e dei cartelloni pubblicitari, ma in quanto a lampioni, non sono sicura di averne visti molti. Davvero l’illuminazione pubblica non c’è e tutto è affidato ai privati? Non ne ho idea.
Ciò che conta è che la visita al parco è stata inutile e anche abbastanza inquietante, ancora di più quando, sulla strada di ritorno in stazione, ci siamo imbattute nel più grosso corvaccio nero che io abbia mai visto. Ma è normale che i corvi in Giappone abbiano le stesse dimensioni dei gabbiani?


Siamo scappate terrorizzate alla ricerca di illuminazione artificiale e non ci siamo fermate finchè non siamo arrivate nella zona della stazione. Prima di tornarcene in albergo abbiamo deciso di concederci una pausa in un cafè che dall’esterno esponeva dei piatti di plastica invitanti da morire. C’era un parfait con fragole che mi chiamava dalla vetrina per cui ho dovuto rispondere. All’interno il posto era affollatissimo, abbiamo fatto un po’ di fila per entrare e una volta dentro anche ordinare non è stato semplice. Tutta colpa dell’inglese, questo sconosciuto. Comunque in qualche modo siamo riuscite a farci capire e anche a trovare un tavolo libero. Ciò che mi ha sorpreso di più è stato che c’era tantissima gente che aveva finito il suo caffè o qualunque cosa avesse preso e continuava a rimanere seduta a studiare o a leggere, a lavorare al portatile o a chiacchierare, non preoccupandosi minimamente di liberare i tavoli per dare spazio ai clienti successivi. Non lo dico in senso negativo, mi ha solo sorpreso che la norma fosse quella.
Il mio parfait, alla fine, faceva più figura in plastica e non era neppure tanto buono infatti le fragole erano congelate, mentre il dolce in stile giapponese, con anko (marmellata di fagioli rossi) e gelato al tè verde, di mia sorella non era affatto male.


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