Giorno 10: Kamakura, all'ombra delle foglie di ginkgo



Quando si parla di Kamakura la prima immagine che viene alla mente è sicuramente quella del grande Buddha del Kotokuin. È un simbolo talmente noto che chiunque deve essercisi  imbattutto almeno una volta anche senza saperlo. Dalla stazione di Tokyo Kamakura dista appena un’ora prendendo la JR Yokosuka line per cui è da sempre stata una meta molto turistica e frequentata da coloro che, visitando Tokyo, abbiano voluto concedersi una gita di un giorno fuoriporta.
Anche nel mio caso il Buddha è stato il motivo per cui l’ho inserita nella lista dei posti da vedere in Giappone, ma ad essere sincera, dopo averla visitata, non è che Kamakura abbia avuto un forte impatto.
Probabilmente anche a causa della visita del giorno prima a Nikko che tanto avevo amato per i suoi colori sgargianti e la natura lussureggiante, Kamakura mi è risultata un po’ grigia e triste, riconfermandomi ancora una volta quanto la montagna abbia un fascino per me che i luoghi di mare non hanno mai avuto.
Ancora oggi a ripensare a quella gita il primo ricordo che affiora alla mente è quello di una stanchezza senza pari dopo una giornata massacrante a camminare. Non fraintendetemi, non voglio dire che Kamakura è brutta o non ci sia niente da vedere. Al contrario, pensando ad ogni singolo posto visitato in città, ogni luogo aveva qualcosa di interessante e particolare, ma nel complesso niente è stato così stupefacente o emozionante da farmi dimenticare la stanchezza della giornata.
So che in molti non saranno d’accordo, ma se vi trovaste a dover scegliere quale città visitare in giornata tra Nikko e Kamakura partendo da Tokyo, io direi Nikko senza alcun dubbio. Ma che sia ben chiaro, questo è assolutamente un mio discutibilissimo parere personale.
Detto ciò, ci sarà pur qualcosa che vale la pena di vedere a Kamakura? Ovvio che si. Il mio solo consiglio è quello di non eccedere nel tentativo di vedere troppo, come nel mio caso, o davvero l’unico ricordo che vi rimarrà sarà quello della stanchezza. Scegliete poche cose considerando anche gli orari di chiusura e quanto siano effettivamente grandi i complessi che andrete a visitare (vi anticipo da ora che l’Engakuji ha messo a dura prova le mie gambe e la mia pazienza). Siete pronti? Cominciamo.
Prima meta della giornata è stato l’Hasedera. Ci arrivate scendendo alla stazione Kamakura della JR e prendendo l’Enoden line fino a Hase.
Faccio una piccola parentesi a proposito di questa linea che conduce all’isola di Enoshima. Devo dire che tutt’ora non ne ho ancora capito il motivo ma su questa tratta non accettano il JRP e cosa peggiore non funzionano neppure le suica. O almeno non funzionavano le nostre. Avevo visto difatti altre persone passare usando la carta prepagata ma quando abbiamo provato a farlo noi i tornelli ci si sono chiusi davanti lampeggiando tragicamente in rosso. Mi sono sentita come una che sta per essere  arrestata senza avere idea di quale crimine abbia commesso.
Se qualcuno sta ipotizzando che probabilmente avevamo finito il credito delle schede e per questo non riuscivamo a passare, vi dico subito che non era così. Le schede erano piene. Il controllore difatti, dopo aver fatto segno di avvicinarci, ci ha chiesto se avevamo il JRP (ma se non si può usare perché voleva sapere se l’avevamo?) e poi ha passato le schede su un aggeggino invitandoci a ritentare la sorte con i tornelli, che questa volta si sono aperti senza intoppi. (Se qualcuno ha capito cosa sia successo sarei lieta di avere una spiegazione perché io tutt’ora continuo a non averci capito niente).
Tornando al discorso principale.
La fondazione dell’Hasedera si fa risalire al 18 Giugno 736, quando fu ritrovata sulla spiaggia Nagai, non lontano da Kamakura, una statua in legno raffigurante Kannon a 11 teste.


Lo abbiamo riconosciuto in lontananza dietro ai cavi elettrici e immerso tra gli alberi grazie alla lanterna rossa appesa al suo portale d’ingresso.  


Il tempio si presenta su più livelli. Appena entrate ci siamo ritrovate in un graziosissimo giardino giapponese molto ben curato dove una segnaletica in legno indicava il percorso da seguire.

Tra il fogliame spuntavano qua e là delle statuine. Ci hanno colpito in particolare dei carinissimi buddhini a gruppi di 3 (noi abbiamo deciso fossero buddhini, ma alla fine credo fossero dei Jizo). Seguendo le indicazioni forniteci abbiamo così salito la prima rampa di scale.



Al primo piano (se così vogliamo chiamarlo) si trovavano centinaia di statue di Jizo tutte uguali, lì a proteggere le anime dei bambini mai nati. Piccoli gruppi di fiori colorati adornavano il luogo sacro mentre un piccolo corso d’acqua era stato incanalato ai piedi delle statue per permettere ai fedeli di bagnare i Jizo prima di rivolgere loro le proprie preghiere.




Un’altra rampa di scale ci ha condotto al padiglione principale. Alla sua destra, in un padiglione minore, si scorgeva già dall’esterno una stupenda statua dorata raffigurante Buddha seduto.



Sul lato opposto una sorta di biblioteca esagonale conteneva i sutra buddisti. Ci siamo divertite a far girare i rulli che contenevano le preghiere nella speranza di diventare più virtuose.




Un’Hotei (dio della felicità) sorridente ci ha attirato verso un minuscolo santuario dedicato a Inari.




Ho adorato che al posto degli ema, per scrivere i desideri , siano stati usati  i gusci delle ostriche.  Su un lato c’era anche un catino ricolmo d’acqua che al centro formava come una bolla. Sulla superficie dell’acqua galleggiavano leggere due margherite colorate. Nella sua semplicità, l’ho trovato di una bellezza unica.



Il padiglione era circondato da un giardino abitato da tante statue differenti. Su un lato un laghetto ospitava enormi carpe colorate tra cui una dorata davvero stupenda.




Altre scale ci hanno condotto a statuine nascoste tra la vegetazione e a una bella vista sulla città che si affacciava sul mare.





Un’allarmante cartello metteva in guardia dai nibbi, ma fortunatamente non ne abbiamo visti durante tutta la giornata.


Tornate al primo livello ci siamo avventurate all’interno del giardino scoprendo due nuovi padiglioni, uno dedicato a Daikoku e l’altro a Benten.  Vicino a quest’ultimo un laghetto precedeva una caverna contrassegnata da un torii rosso.





Una canna di bamboo faceva scorrere dell’acqua limpida all’interno del laghetto. Accanto ad essa un vassoio conteneva delle tavolette in legno. Abbiamo supposto che servissero ad esprimere dei desideri e che, perché questi si realizzassero, fosse necessario bagnare le tavolette.
Ho incitato mia sorella ad afferrarne una  e a fare la sua richiesta alla dea. Mia sorella ha prontamente eseguito,  infilando la tavoletta sotto il getto d’acqua, salvo poi girarla e accorgersi che questa conteneva sul dorso, scritti a penna, i desideri di qualcun altro. Alle nostre spalle difatti si trovava un intero ripiano di tavolette vuote pronte per essere scritte, ma noi non ce ne eravamo minimamente accorte, andando così a prendere quelle già utilizzate.



Guardandoci intorno, sperando che nessuno ci abbia visto compiere il misfatto, siamo quindi entrate all’interno della caverna a chiedere perdono alla dea Benten. L’interno della caverna era piuttosto scuro, alcune figure erano state scavate direttamente sulla roccia e dei cartelli avvertivano di far attenzione alla testa quando si passava da una cavità all’altra. Nell’antro più profondo della grotta si trovava una raffigurazione di Benten circondata da tante minuscole statuine lasciate dai fedeli in segno di devozione. Mi ha colpito il fatto che una volta terminato lo spazio disponibile sul suolo le statuine siano state disposte un po’ ovunque sulle sporgenze della roccia, sui fili della luce e sulla statua di Benten stessa.





Ci siamo chieste se lasciare anche noi una statuina in segno di scuse per la malefatta precedente, ma poi abbiamo lasciato perdere, spaventate di commettere qualche altro grossolano errore di procedura, dettato dall’ignoranza, che ci avrebbe inimicato la dea per sempre.
Lasciato l’Hasedera ci siamo dirette verso il Kotokuin, il tempio che ospita la tanto famosa statua di Buddha che ha reso conosciuta Kamakura in tutto il mondo.  Ci si arriva comodamente dall’Hasedera con una breve passeggiata.
Nonostante si trovi all’interno di un tempio, la statua in bronzo raffigurante Amida Buddha è di fatto all’aperto. Il tempio Kotokuin, infatti, fu distrutto più volte da tifoni tra il 1334 e il 1369 e infine da un terremoto nel 1498, dopo il quale l’edificio in legno non venne più ricostruito.  Solo il Buddha si salvò da tale devastazione. Realizzato nel 1252, su idea del sacertode Joko che raccolse donazioni per la sua costruzione, è attribuito agli scultori One Goroemon e Tanji  Hisatomo, ma tale attribuzione non è certa.
Dopo aver acquistato il biglietto d’ingresso, siamo entrate anche noi nell’area sacra. Il grande Buddha si trovava in mezzo ad un ampio spiazzo attorniato da alberi di diverso tipo.



In breve tempo ci siamo ritrovate accerchiate da scolaresche in gita. Alcuni ragazzi con i gakuran (le tipiche divise scolastiche maschili giapponesi) ci hanno precedute al chozuya.


Altri erano intenti a scattarsi una foto di classe con il loro insegnante con alle spalle il Daibutsu. Cappellini gialli comparivano qua e là nei dintorni della grande statua.


Dall’alto dei suoi  11 metri il Buddha sembrava imperturbabile rispetto a tutto ciò che gli girava intorno. Seduto in meditazione, con i suoi profondi occhi blu semichiusi e il sorriso gentile, sembrava ancora più monumentale proprio perché la sua figura si stagliava solitaria contro il cielo.


Lo abbiamo fissato per un po’ da davanti cercando di misurarne l’effettiva altezza usando come termine di paragone la nostra, poi ci abbiamo girato attorno, scoprendo due grandi finestre sulle sue spalle e un piccolo ingresso sul lato.





La statua difatti, per pochi yen, è visitabile anche all’interno, ma noi abbiamo preferito non entrare perché c’era già un po’ di gente in fila e ci dava la sensazione di essere piuttosto stretta e claustrofobica.


Attorno al Daibutsu si trovavano alcuni padiglioni in legno. La mia attenzione è stata subito attirata da un edificio sul cui muro erano appesi due giganteschi o-waraji. Sembravano proprio della misura adatta al Buddha. Non sono riuscita a non immaginarmelo alzarsi, stufo di rimanere in meditazione dopo tanti anni, indossare i sandali e partire per un pellegrinaggio. Quanto sarebbe stato alto se si fosse alzato?


Un’altra cosa che mi ha colpito molto è stato che, tra le tante varietà di alberi presenti, ce n’erano alcuni di ginkgo davvero stupendi. Forse perché non ne avevo mai visti prima, ma mi sono subito innamorata di quelle giallissime foglie a ventaglio.



Lasciato il tempio, abbiamo fatto man bassa di souvenir come non ci eravamo concesse nemmeno per tutto il resto del viaggio. Un buddhino  per noi, degli amuleti per le amiche, un daruma per il fidanzato che attendeva pazientemente in Italia…. Abbiamo svaligiato più di un negozietto. Se andate a Kamakura e volete comprare dei souvenir, vi consiglio il negozio proprio di fronte al tempio Kotokuin. Lo gestiva una signora carinissima che ci ha aiutato nella scelta. I prezzi erano i più bassi nei dintorni e da lì abbiamo portato in Italia un daruma dipinto a mano perfetto in ogni dettaglio.
Sulla via di ritorno in stazione abbiamo incrociato un negozietto che vendeva vari prodotti realizzati con una delle specialità di Kamakura: le patate dolci viola. Non abbiamo saputo resistere e siamo entrate a comprare una crocchetta e un gelato alla patata. Buonissimi. Tornerei a Kamakura solo per far di nuovo merenda in quel negozio.



In stazione abbiamo di nuovo ripreso le suica per accedere all’Enoden line ed ecco consumarsi una nuova tragedia. Tornelli rossi e un controllore, stavolta molto burbero, ad attenderci. Stavo già perdendo la pazienza e inveendo contro la stupida linea ferroviaria, quando mia sorella mi ha fatto notare che forse stavolta era davvero colpa nostra. All’andata difatti, una volta arrivate ad Hase, avevamo seguito la folla fuori dalla stazione, attraverso un tornello aperto e senza controllore. Siccome passavano tutti di lì, lo abbiamo fatto anche noi, pensando, come due sceme, che forse in questa linea si timbrava solo l’entrata e non l’uscita.  Ma quando mai! Per cui ci siamo ritrovate di nuovo lì a non poter entrare perché in teoria non eravamo mai uscite. Il controllore ci ha guardato in cagnesco per tutto il tempo, e con ragione purtroppo, sbraitando in giapponese, probabilmente per non farci capire che stava maledicendo noi e tutti i turisti stranieri che erano passati di lì. Alla fine, forse per liberarsi della nostra scomoda presenza, ha comunque passato le nostre suica sul magico aggeggino che conferiva alle schede i poteri per aprire i tornelli dell’Enoden e ci ha lasciate andare.
Tornate alla stazione di Kamakura abbiamo quindi ripreso il treno e siamo scese alla stazione di Kita Kamakura per vedere il resto della città.
Abbiamo così iniziato la visita dall’Engakuji, che io ho poi soprannominato “il tempio dalle mille vie senza uscita”, e lì è cominciato il mio incubo peggiore.  


In primo luogo perché il complesso era molto più grande di quello che mi aspettassi, per cui per visitarlo tutto ci abbiamo impiegato diverse ore che io avevo previsto per la visita di altri templi. In secondo luogo perchè il complesso era formato da vari padiglioni che si trovavano diradati qua e là tra le colline, per cui, per vederli bisognava salire varie rampe di scale per ognuno di essi.  Non che questo fosse il vero problema. Ciò che mi ha fatto davvero saltare i nervi è stato che molti dei padiglioni erano chiusi, per cui dopo aver salito milioni di scale ci si ritrovava di fatto di fronte a una strada sbarrata senza la possibilità di vedere niente.


La visita all’Engakuji è stata quindi un fallimento totale? In buona parte si, ma ci terrei a salvare alcune cose.
Il portale monumentale in legno finemente intagliato all’ingresso mi è piaciuto molto, come anche il padiglione dedicato al tiro con l’arco.



Mi ha interessato molto anche la sala dei tatami e il poter vedere un po’ della quotidianità dei monaci buddisti.



Ho davvero ammirato un percorso fiancheggiato da statue e lastre scolpite con dei solchi bassissimi, quasi impercettibili, che ad un occhio attento regalavano dei pezzi d’arte meravigliosa.



Sono rimasta totalmente affascinata dalla decorazione dei fusuma (porte scorrevoli) di uno dei padiglioni del tempio e in generale dalla natura che arricchiva con il suo tocco il complesso.



Ho lasciato con piacere le scarpe all’entrata e percorso a piedi scalzi la sala del tesoro del tempio, con i suoi tamburi taiko, i suoi numerosi tatami, gli stupendi rotoli decorati,  la meravigliosa vista sul giardino giapponese esterno e le fantastiche ciabatte da bagno rosa.








Ho infine portato nel cuore il ricordo di alcune persone incontrate, come il gentile signore che si è offerto di scattarci una foto con la campana del tempio e che sembrava tanto orgoglioso del fatto che la nostra reflex fosse di marca giapponese.


Siamo uscite dall’Engakuji stremate e nel panico, perché avevamo ancora un sacco di templi da visitare e pochissimo tempo per farlo. Abbiamo deciso di fare del nostro meglio per vedere il più possibile, per cui abbiamo optato per continuare a visitare templi ad oltranza fino all’orario di chiusura, posticipando il pranzo a un’ora da destinarsi.
Con tale consapevolezza ci siamo così dirette al Meigetsuin. Mi è dispiaciuto aver visitato questo tempio in una stagione poco adatta e con tanta stanchezza sulle spalle. In condizioni migliori sono sicura sarei riuscita ad apprezzarlo molto di più. In generale è stato tra i posti che mi sono più piaciuti in città.
Il Meigestuin aveva bandito i pokemon dai suoi possedimenti per far spazio a tanti adorabili coniglietti.




Ogni cosa all’interno dell’area sacra era piccola, graziosa e accogliente. Le aiuole all’ingresso erano popolate da numerosi fiori blu e le panchette rosse di una casa da tè comparivano tra le fronde degli alberi.



Abbiamo attraversato un ponticello in legno fino ad arrivare al sentiero delle pietre erose, che sui lati era percorso da rigogliose piante verdi. Peccato non essere andate nella stagione giusta per vedere le ortensie in fiore.


 
Tra il verde si trovava anche una minuscola foresta di bamboo.


Abbiamo proseguito fino al padiglione principale del tempio guidati da piccoli Jizo con lanterne e buddhini portatori di fiori.




Tra le cose che mi sono piaciute di più ci sono stati sicuramente il giardino secco con i giardinieri giapponesi all'opera e la stupenda sala con la finestra circolare che permetteva di allungare la vista verso il giardino degli iris retrostante il tempio, purtroppo non visitabile quando siamo andate noi.




La tappa successiva è stato il tempio Tokeiji. Ci siamo arrivate ripercorrendo indietro la strada già fatta lungo i binari del treno e attraversando il passaggio a livello in compagnia di altri scolari con gli insostituibili cappelli gialli. 



Il Tokeiji è stato il tempio che mi è piaciuto di meno. Devastata dalla stanchezza com’ero non ho proprio potuto perdonare alla cassiera di avermi venduto dei biglietti d’ingresso a prezzo intero quando più della metà dei padiglioni del complesso erano chiusi e quindi non visitabili. Ho scattato si e no due foto e ho girato i tacchi incavolata nera. Ve le metto qui giusto se proprio ci tenete a vederlo.




Ero così contrariata che stavo quasi per mollare tutto e tornarmene a Tokyo, quando mi sono detta che non avrei avuto altre occasioni per tornare a Kamakura, per cui ho tenuto duro e mi sono diretta verso il tempio successivo.
Il Jochi-ji aveva un non so che di mistico e dimenticato nel tempo che mi ha ispirato fiducia già dall’ingresso.
 

La signora che ci ha venduto i biglietti poi era così amorevole e ci ha spiegato così minuziosamente ogni cosa prima di entrare che mi ha assolutamente convinto di aver fatto la scelta giusta a non aver gettato la spugna.
Anche qui ci ha accolto un’area sacra completamente immersa nel verde, ma a differenza dei complessi precedenti, tutto era meno artificiosamente curato e più naturale e sincero. Ho raccolto una foglia di ginkgo per portarmela a casa come ricordo.




Dopo aver superato il padiglione principale, dove erano venerate le tre figure in legno di Amida, rappresentante il passato, Shaka, rappresentante il presente e Miroku, rappresentante il futuro, ci siamo dirette in direzione del cimitero, lungo un percorso fatto di grotte ricoperte di muschio e piccole statue accolte tra le insenature delle rocce.





Un Jizo proteggeva l’anima di una bambina accompagnato dalla sua barbie.


Attraverso un passaggio scavato nella roccia siamo arrivate alla grotta in cui ci attendeva Hotei, il dio della felicità, facente parte dei  7 della fortuna, spesso raffigurato come un monaco sorridente e cicciottello dall’ombelico in evidenza (simbolo di benevolenza), a volte porta con sé un sacco pieno di doni per i poveri. Ci ha accolto, indicandoci con il dito, al fine di donare anche a noi un po’ di felicità.



Abbiamo lasciato il Jochiji che erano già le 16.30. Capendo che non saremmo mai riuscite a raggiungere l’ultimo tempio della giornata in tempo prima della chiusura, abbiamo deciso che era il momento di andare finalmente a pranzare. Abbiamo così ripreso il treno e siamo scese nuovamente alla stazione di Kamakura, più vicina al centro città.
Visto l’orario improbabile per il pranzo abbiamo fatto sosta da Fujiya decise a rianimarci con qualcosa di dolce.


Mia sorella ci ha messo tipo 20 min di orologio per decidere cosa prendere, tempo in cui la mia fame era aumentata alla stessa velocità con cui si era esaurita la mia pazienza. Mi sono trattenuta dall’urlare contro di lei e contro la cameriera che in quei 20 min non si era mai fatta vedere, solo perché non volevo passare per una pazza in un luogo pubblico.
Solo dopo mi sono accorta che se la cameriera non era venuta era perché non avevamo premuto l’aggeggino per chiamala che avevamo sul tavolo. Avevo quasi frainteso la cortesia giapponese che tiene conto anche delle persone eternamente indecise e che evita di stressare il cliente chiedendo l’ordinazione ogni 5 min. Premuto il pulsante difatti, la cameriera è arrivata ad una velocità supersonica che mi ha quasi spaventato.
Alla fine abbiamo ordinato due pancake ricoperti da banane e gelato al cioccolato che erano la fine del mondo. Peccato per questo vizio di mettere la panna montata sopra a tutto.


Rifocillate per bene e riprese le forze abbiamo fatto un giro per il centro guardando i negozi e ci siamo dirette infine verso il santuario Tsurugaoka Hachimangu, ultima meta della giornata.
Il percorso verso il santuario cominciava con un imponente torii rosso e una sterminata fila di lanterne in pietra.



Seguendo il sentiero  siamo giunte al vermiglio Maidono che era già sera. Al suo interno un sacerdote stava preparando le offerte per un rituale.


Abbiamo salito i 61 scalini che ci separavano dal padiglione principale, da cui si riusciva a vedere il lungo viale percorso in precedenza.


Accanto al padiglione erano appesi alcuni ema carinissimi a forma di foglie di ginkgo. Il santuario difatti è famoso per ospitare al suo interno un antichissimo albero di ginkgo di cui però è rimasto solo il tronco dopo un violento temporale avvenuto nel 2010.




Abbiamo visto vari sacerdoti affaccendarsi in giro e ne abbiamo seguito uno attraverso una fila di torii fino a scoprire un piccolo santuario dedicato a Inari.



Siamo quindi tornate al Maidono dove la cerimonia aveva avuto inizio. Di che cerimonia si trattasse non sono sicura ma sembrava quasi un matrimonio,  anche se nessuno indossava abiti da sposa. Due sacerdoti e una sacerdotessa, vestiti con abiti bianchi dagli interni arancioni, presiedevano la funzione.


I sacerdoti indossavano un copricapo nero, mentre la sacerdotessa aveva una sorta di coroncina di fiori rosa che le ricadeva sulla fronte.


Un uomo e una donna, in abiti tradizionali, erano seduti, l’uno accanto all’altra, nella parte centrale della sala. Ai lati, alcune persone, suppongo i membri delle rispettive famiglie, assistevano al rituale.


Abbiamo visto uno dei sacerdoti  raggiungere il centro della sala e cantilenare una preghiera leggendola da un rotolo.

 


Successivamente la sacerdotessa ha inscenato una sorta di danza.


È stato uno spettacolo inusuale ma estremamente interessante. Ci sarebbe piaciuto rimanere a vederlo tutto ma si era già fatto molto tardi per cui abbiamo preferito riprendere il treno e rientrare a Tokyo.
Abbiamo cenato con due ottimi chirashi, uno a base di tonno leggermente scottato, l’altro con tonno al vapore, avocado e ikura.



Prossima destinazione? Yokohama.

Per avere più notizie sui luoghi visitati vi metto qui sotto i link agli approfondimenti: 
Hasedera 
Daibutsu del Kotokuin 
Engakuji 
Tsurugaoka Hachimangu 

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