Giorno 9: Nikko, non dire stupendo finché non l'hai visto
Un
proverbio giapponese dice: “Fino a quando non hai visto Nikko, non dire
stupendo” (Nikko wo miru made, kekko to iuna). Devo ammettere di essere pienamente d’accordo.
Nikko è di una bellezza unica, difficile da descrivere a parole. I suoi templi
e santuari, la sua natura, i suoi colori, il suo cibo e l’accoglienza dei suoi
abitanti. Sicuramente è stato uno dei luoghi che più ho amato di tutto il
viaggio.
Da Tokyo dista
circa 1 ora e mezzo di treno, usando lo shinkansen (il treno “proiettile” ad
alta velocità giapponese). Lo shinkansen arriva fino ad Utsunomiya, dove
bisogna cambiare e prendere la JR Nikko line con destinazione Nikko appunto.
Noi avevamo acquistato prima della partenza il JRP, un pass ferroviario che ci ha permesso, per 21 giorni, di viaggiare illimitatamente sui treni della compagnia JR, tra cui anche gli shinkansen.
Noi avevamo acquistato prima della partenza il JRP, un pass ferroviario che ci ha permesso, per 21 giorni, di viaggiare illimitatamente sui treni della compagnia JR, tra cui anche gli shinkansen.
Il
nostro nono giorno in Giappone è stato anche il primo di attivazione del JRP e
il primo in cui abbiamo assistito al
ritardo di un treno giapponese.
So
che sembrerà ridicolo, ma dopo una settimana ci eravamo ormai talmente abituate
alla puntualità giapponese, che anche un piccolo ritardo ci è sembrato
un’eternità.
Alla stazione di Utsunomiya si gelava, abbiamo
continuato a saltellare sul posto in attesa del treno e comprato della
cioccolata calda ad un distributore solo per riuscire a scaldarci un po’.
Nonostante avessi capito che c’era qualche problema con il treno, perché questi
non arrivava e l’altoparlante risuonava ogni 5 min, mi ha molto infastidito il
fatto che annunciassero le fermate in inglese e giapponese, ma le comunicazioni
di servizio, come i ritardi, solo in giapponese. Cos’è gli stranieri non devono
essere messi al corrente di cosa sta succedendo? Quella tratta era fin troppo
turistica per non fare un annuncio anche in inglese!
Il treno alla fine è arrivato con 20 min di
ritardo. Sebbene per l’Italia questo poteva essere un ritardo ininfluente,
considerando che mi ero alzata alle 4.00 del mattino ed ero stata al gelo ad
aspettare il treno per 20 min, quando ho messo piede sul treno, ero già entrata
in modalità “nervoso”. Ma i servizi ferroviari giapponesi sanno perfettamente
come farsi perdonare. Il treno difatti ha poi recuperato il ritardo durante la
percorrenza, arrivando a destinazione in orario perfetto.
Dalla
stazione di Nikko si può fare una passeggiata di circa mezz’ora per raggiungere
i principali luoghi di interesse oppure prendere l’autobus. Noi abbiamo optato
per la seconda opzione per una questione di tempo. Tutti i principali templi o
santuari di Nikko chiudono molto presto, alle 15.30 circa, e visto erano
tantissime le cose che volevamo vedere, avevamo paura di non fare in
tempo.
Prima
tappa della giornata è stato il Taiyuinbyo, il mausoleo di Tokugawa Iemitsu,
nipote di Ieyasu e terzo shogun della famiglia Tokugawa. Abbiamo scelto di
cominciare da qui perché era il più distante dalla stazione, per cui avremmo
potuto riavvicinarci man mano che visitavamo i vari templi e santuari.
Appena
messo piede fuori dall’autobus siamo state letteralmente folgorate dagli accesissimi
colori che ci circondavano. Gli edifici, vividi e pieni di decorazioni erano
immersi in una natura variopinta e rigogliosa.
I colori dell’autunno mi hanno fatto completamente innamorare a prima
vista. Continuavo a guardarmi intorno, in estasi, cercando di bloccare nella
mia mente ogni dettaglio, incredula che tale meraviglia potesse davvero
esistere al mondo. Nikko era assoluta perfezione.
Di
fronte a cotanta bellezza non è stato così immediato capire verso dove
dirigersi. Nikko difatti presenta due grossi ostacoli al turista medio. In
primo luogo scordatevi il romaji, cioè i caratteri alfabetici a noi
comprensibili. I nomi dei templi e le indicazioni sono tutti in giapponese,
peggio ancora in ideogrammi. Non troverete una scritta in inglese nemmeno a
cercarla con la lente d’ingrandimento.
Qualcuno
potrebbe allora pensare: “Qual è il problema? Basta cercare il luogo che vuoi
visitare su Google Maps e seguire le indicazioni!” Ecco, scordatevi anche
Google Maps. Di tutti i posti visitati in Giappone, Nikko è stato l’unico in
cui non c’era assolutamente nessun, e ci tengo a sottolineare assolutamente
nessun, segnale. Dimenticatevi internet e portatevi delle mappe cartacee
insomma, perché ne avrete estremo bisogno.
Nell’incertezza
dunque di quale fosse l’ingresso al Taiyuinbyo siamo state soccorse da un
gentile monaco che ci ha indicato la direzione da prendere. Lo abbiamo
conosciuto che era intento a spazzare l’ingresso di quello che abbiamo poi
scoperto essere l’Hokke-do, la sala del loto, per cui prima di andare ci ha
invitato ad entrare. Non ce lo siamo fatte ripetere due volte e, tolte le
scarpe, abbiamo fatto un giro all’interno, scoprendo una insolita
rappresentazione di Buddha incoronato, seduto su un pavone, detto Honbune.
Abbiamo
proseguito quindi verso il Taiyuinbyo. Elementi buddisti come il portale
monumentale si alternavano a shintoisti, come il chozuya ma tutto era
caratterizzato da colori vivaci e dettagliate decorazioni. Da questo punto di
vista Nikko è unica in tutto il Giappone. Se la norma difatti è che i templi e
i santuari siano improntati all’austerità e alla semplicità, Nikko rompe ogni
regola con estrema eleganza, regalando al visitatore piccole opere d’arte
d’intaglio.
Attaccato
al Taiyuinbyo si trovava il santuario Futarasan, dedicato alle tre montagne
sacre di Nikko: il monte Nantai (detto anche Futara), il monte Nyoho e il monte
Taro. Abbiamo attraversato il torii d’ingresso e ci siamo divertite a passare
sotto il chinowa, un cerchio fatto di canne intrecciate a cui erano appesi gli
shide. Passandoci attraverso per due volte si viene purificati e si scaccia la
sfortuna. La cosa strana è che ci fosse un chinowa a Novembre. Questi cerchi
difatti vengono montati tra Giugno e Luglio, oppure a Dicembre, in base al
calendario lunare, ma a giudicare dai fogli di carta colorata appesi ai suoi
lati, che a me hanno ricordato i desideri che si appendono per la festa del
Tanabata, è probabile che fosse lì da Luglio.
Il
Futarasan è il più antico dei santuari di Nikko e forse per questo anche il
meno ricco di decorazione, in realtà non era molto diverso da tanti altri visti
a Tokyo.
Finita
la visita ci siamo quindi dirette verso il Toshogu percorrendo un viale
delimitato da lanterne in pietra.
Ad
accoglierci al suo ingresso l’enorme pagoda a cinque piani riccamente decorata,
una giovane sacerdotessa intenta a recitare alcune preghiere e un milione di
bambini delle elementari con i loro cappellini gialli.
Abbiamo
così raggiunto la prima zona all’interno del recinto sacro che era
caratterizzata da stalle e depositi così riccamente decorati e profusi d’oro da
far invidia ad un imperatore. La famosa stalla con le tre scimmie (non vedo,
non sento, non parlo il male) è uno dei simboli del santuario e all’interno
ospitava ancora il cavallo sacro. Ci sarebbe piaciuto scattarci una foto in
posa ma ci mancava la terza scimmia per cui non sarebbe venuta bene. Abbiamo
però acquistato un portachiavi in tema.
Uno
dei depositi più famosi era quello che presentava intagliati degli elefanti. A
quanto pare lo scultore non li aveva mai visti e per raffigurarli si era basato
solo su ciò che gli era stato raccontato.
Proseguendo
siamo arrivate allo Yomei-mon. L’enorme portale, che tanto aveva fatto
inorridire Fosco Maraini che l’aveva definito “una gigantesca torta nunziale”
era però in ristrutturazione e di conseguenza completamente coperto da
impalcature.
Mi
sono chiesta se anch’io, qualora avessi potuto vederlo, l’avrei trovato così
eccessivo da essere stucchevole come era stato per Maraini. Non posso esserne
sicura ma non credo. Nikko mi è piaciuta tanto quanto credo Maraini l’abbia
detestata. Quell’eccesso di decorazione, quell’esuberanza di colori in un Paese
in cui l’architettura è improntata al minimalismo, è una meraviglia per gli
occhi proprio perché si tratta di un caso isolato. Potrete vedere milioni di
templi simili in Giappone, ma nessuno sarà come quelli di Nikko.
Prima
di attraversare lo Yomei-mon ci siamo dirette sulla sinistra, ci siamo tolte le
scarpe e ci siamo messe in fila per entrare all' Honji-do, il padiglione del
drago che ruggisce (o piange, dipende da ciò che percepisce il vostro
orecchio). Un monaco ci ha fatto una breve introduzione in giapponese (per cui
non ci abbiamo capito niente) e poi è cominciata la dimostrazione. Sbattendo
alcuni bastoni tra loro, nella sala si è diffuso un suono che sembrava
provenire dall’enorme drago raffigurato sul soffitto. All’interno era vietato
fare foto ma io ci ho provato lo stesso, con pessimi risultati come potete
vedere.
Reindossate
le scarpe, ci siamo dirette verso il padiglione principale. Nonostante fosse anch’esso
in restauro, grazie al cielo, buona parte di esso era visibile. Dire che era
stupendo è riduttivo. La precisione con cui le varie figurine che lo popolavano
erano state intagliate era senza eguali. Animali, rami degli alberi e fiori si
intrecciavano riempiendo gli spazi vuoti lasciti dall’oro e dalle colorate
tappezzerie.
Alla
nostra sinistra la famosa porta con il gatto dormiente ci ha introdotte alla
lunga serie di gradini che ci separavano dal mausoleo di Tokugawa Ieyasu.
In realtà mi aspettavo di peggio, a vedersi da lontano i gradini sembravano non finire mai, invece siamo arrivate abbastanza velocemente senza nemmeno stancarci troppo. O forse abbiamo sentito meno la fatica perché ci siamo fermate a ogni rampa di scale per scattarci le foto. Ma come si poteva fare altrimenti? Il paesaggio attorno a noi era di una bellezza incredibile. Verdi altissimi pini e criptomerie ci circondavano da ogni lato.
In realtà mi aspettavo di peggio, a vedersi da lontano i gradini sembravano non finire mai, invece siamo arrivate abbastanza velocemente senza nemmeno stancarci troppo. O forse abbiamo sentito meno la fatica perché ci siamo fermate a ogni rampa di scale per scattarci le foto. Ma come si poteva fare altrimenti? Il paesaggio attorno a noi era di una bellezza incredibile. Verdi altissimi pini e criptomerie ci circondavano da ogni lato.
Il mausoleo, fatta eccezione per la meravigliosa porta d’accesso, era in fin dei conti piuttosto modesto se consideriamo che era dedicato al primo shogun Tokugawa, la cui figura ha una portata estremamente rilevante nella storia del Giappone.
Ridiscese
tutte le scale che ci avevano portate al mausoleo ci siamo infine ritrovate al
meraviglioso viale alberato che ci avrebbe condotto all’ultimo edificio sacro
della giornata, il tempio Rinnoji.
Il
Rinnoji purtroppo era completamente impalcato all’esterno e anche all’interno
presentava molte aree chiuse. Abbiamo comunque potuto visitarlo ma era vietato
scattare foto per cui non ho testimonianze dell’evento. All’interno erano presenti
molte statue e raffigurazioni di Buddha ma erano tutte state spostate dalla
loro collocazione abituale per fare largo ai lavori e creare una sorta di percorso
museale per il visitatore. A giudicare dalla quantità di oggetti e statue viste,
il Rinnoji doveva essere di una ricchezza e bellezza persino maggiore del santuario
Toshogu, ma ne godrà la vista chi visiterà la città nel 2019, alla fine dei
lavori di restauro.
Alla
fine del percorso museale del Rinnoji era possibile salire su alcune
impalcature dalle quali si aveva accesso alla vista sui lavori di ricostruzione
del tetto del padiglione principale. È stato davvero interessante, inoltre da
quell’altezza le impalcature offrivano anche una vista sulla città e sui suoi
meravigliosi colori.
Scusate
se mi soffermo di nuovo su questa cosa ma i colori autunnali di Nikko sono
qualcosa che va assolutamente condiviso e celebrato.
Potete farvene un ulteriore idea dalle foto che abbiamo scattato allo Shoyoen, il giardino del tempio Rinnoji.
Potete farvene un ulteriore idea dalle foto che abbiamo scattato allo Shoyoen, il giardino del tempio Rinnoji.
Lasciato
il tempio, abbiamo proseguito lungo il viale in direzione del ponte Shinkyo. Il
ponte che attraversa il fiume Daiya non è percorribile se non attraverso il
pagamento di un biglietto.
Quando
siamo arrivate un servizio fotografico era in corso sul ponte. Alcune modelle,
con indosso variopinti kimono, passeggiavano su di esso. Il rosso del ponte, il
turbinio delle acque, il colori autunnali delle montagne sullo sfondo e le
ragazze in kimono formavano un quadro perfetto.
Prima
di proseguire verso l’ultima meta della giornata abbiamo deciso che era
arrivata l’ora di pranzare. Nikko è famoso per lo yuba, per cui ci siamo fermate
in un localino che aveva questa specialità.
Il ristorante
era piccolo e familiare. C’era proprio atmosfera di casa. Alle pareti mille fogliettini
lasciati dai clienti con i loro commenti. C’erano post-it in tutte le lingue e
da tutte le parti del mondo.
Abbiamo
ordinato degli yakitori (spiedini di pollo) da dividere e una ciotolona di
ramen fumante a testa.
Io ho preso quella con dentro lo yuba, mia sorella invece quella senza perché appena le ho spiegato cosa fosse la specialità del posto, si è rifiutata persino di assaggiarla, disgustata.
Io ho preso quella con dentro lo yuba, mia sorella invece quella senza perché appena le ho spiegato cosa fosse la specialità del posto, si è rifiutata persino di assaggiarla, disgustata.
Ora
guardate la foto del mio piatto e ditemi se vi sembra disgustoso.
Lo yuba sono le due rondelle giallognole in alto. Io l’ho mangiato e vi assicuro che era buono. Inoltre è un piatto perfetto per vegani e vegetariani e per chi è a dieta perché è davvero ipocalorico.
Lo yuba sono le due rondelle giallognole in alto. Io l’ho mangiato e vi assicuro che era buono. Inoltre è un piatto perfetto per vegani e vegetariani e per chi è a dieta perché è davvero ipocalorico.
Avete
capito di cosa si tratta? D’accordo ve lo dico, ma non lasciate la lettura del
blog disgustati, vi giuro che era davvero buono.
Avete
presente quando mettete a bollire il latte per la colazione nelle vostre mattine
d’inverno? Vi è mai capitato che se lo lasciate sul fuoco troppo a lungo si formi in
superficie quella leggera pellicina? Ecco,
fate lo stesso con il latte di soia e dopo aver essiccato la pellicina avrete
lo yuba.
Prima
di lasciare il locale abbiamo approfittato della connessione ad internet per
capire come raggiungere la tappa successiva che non avevamo sulla mappa, perché
un po’ fuori dai soliti itinerari turistici, e abbiamo voluto lasciare anche
noi un segno del nostro passaggio.
Ci
siamo così dirette nuovamente al ponte Shinkyo al fine di seguire il corso del
fiume fino a raggiungere la nostra meta.
Lo
so mi ripeto, ma davvero spero che tramite le foto possa arrivarvi almeno l’1%
della bellezza dei paesaggi di Nikko. A me hanno completamente tolto il fiato.
Ho passato l’intera giornata a ossessionare mia sorella (come ora sto ossessionando
voi) ripetendo all’infinito quanto fosse stupenda ogni cosa che vedevo e che non
riuscivo a credere che un posto del genere esistesse davvero.
L’abisso
Kanmangafuchi è stato tra le cose che ho amato di più. Abbiamo capito di essere
arrivate nel luogo giusto alla vista delle prime statue di Jizo con i loro
cappellini e bavettine rosse.
I
Jizo sono divinità buddiste protettrici dei viaggiatori e dei bambini mai nati.
Sono caratterizzate dai loro indumenti rossi confezionati a mano dalle donne
che sperano di proteggere l’anima dei loro bambini e si trovano un po’ ovunque,
nei templi, lungo le strade o in campagna a vigilare i confini tra il mondo
terreno e quello degli spiriti.
I
Jizo dell’abisso sono conosciuti con 3 nomi differenti: Narabi Jizo (Jizo in
fila), Hyaku Jizo (100 Jizo) e Bake Jizo (Jizo fantasma). Il motivo del primo
nome è fin troppo evidente. Appena arrivate ci siamo trovate di fronte a una
lunga fila di Jizo completamente immersi nella natura.
Le
statue inizialmente erano 100 ma a seguito di un’alluvione nel 1902 alcune sono
andate distrutte e attualmente se ne contano solo 70. In realtà le donne del
posto hanno continuato a creare gli indumenti rossi anche per le statue non più
esistenti, per cui, contando i cappellini, noi siamo arrivate al numero di 97.
Il
nome Bake Jizo invece deriva dal fatto che si dice che le statue cambino di
posto e se si percorre l’abisso in entrambe le direzioni, contandole, queste
cambieranno di numero. Abbiamo voluto sperimentare se fosse effettivamente
vero, ma devo dirvi che sia all’andata che al ritorno abbiamo contato sempre 97
statue. Forse quel giorno i Jizo non avevano voglia di giocare a nascondino con
noi.
Nonostante
la presenza delle statue, e quindi dell’intervento dell’uomo, l’abisso
Kanmangafuchi è un luogo dove la natura regna sovrana e anzi sembra
riappropriarsi del territorio.
La
gola, formatasi in seguito ad un’eruzione del monte Nantai, presentava alberi
rigogliosi i cui colori passavano dal giallo, all’arancione, al verde e un
fiume impetuoso che sembrava scavare le rocce al suo passaggio.
Il muschio
ricopriva completamente i muretti sui quali erano posizionate le statue di Jizo
e le radici degli alberi facevano capolino dalla terra.
Due
ponti, uno costruito dall’uomo, l’altro dalla natura, si aprivano il passo tra
le foglie ambrate.
Ho
lasciato l’abisso davvero con difficoltà, impossibile staccarsi da tanta
bellezza. Tornate sui nostri passi abbiamo ripreso l’autobus e poi il treno che
ci ha riportato a Tokyo.
Abbiamo
cenato in stazione con un’ottima omurice (frittata ripiena di riso) prima di
tornare in hotel.
Visita
dell’indomani: Kamakura.
Se vi va di saperne di più sui luoghi visitati vi lascio i link agli approfondimenti:
Taiyuinbyo
Toshogu
Rinnoji
Futarasan e ponte Shinkyo
Se vi va di saperne di più sui luoghi visitati vi lascio i link agli approfondimenti:
Taiyuinbyo
Toshogu
Rinnoji
Futarasan e ponte Shinkyo
Commenti
Posta un commento